La storia di Alessandra inizia quando, solo ventunenne (siamo nel 1998) e dedita all’attività sportiva, accusa un dolore al polpaccio che i medici attribuiscono ad uno “strappo muscolare”. Il dolore però non passa, anzi, aumenta. “Facevo salto in lungo, correvo – racconta Alessandra – quindi, dicevano che era sicuramente dovuto a questo. Però io non avevo subito traumi e mi ero resa conto che era un dolore diverso da quelli che avevo già avuto legati al muscolo o ai tendini. Avevo fatto numerose indagini mediche ma nessuno riusciva a capire perché avessi questo dolore che progrediva fino ad obbligarmi ad utilizzare le stampelle per andare all’Università”, dove Alessandra, intanto, studiava Chimica Farmaceutica.

Dopo alcune settimane, la gamba si gonfia al punto da condurre la ragazza in pronto soccorso dove “finalmente” le viene diagnosticata una trombosi venosa profonda. Lo spavento e lo smarrimento inizialmente prendono il sopravvento. Alessandra, che ora è diventata “una paziente”, viene ricoverata e perde improvvisamente l’autonomia. Infatti, contrariamente a quanto viene oggi consigliato (mobilizzazione e deambulazione precoce) le viene imposta la completa immobilizzazione a letto durante i dieci giorni di ricovero in ospedale.

Quando alla studentessa viene diagnosticata la trombosi molte conoscenze sul tromboembolismo venoso, ed ancor più sulla sindrome da anticorpi antifosfolipidi (APS), sono ancora “nebulose”. Infatti, ai primi accertamenti, non viene riscontrata alcuna alterazione “coagulativa”. Essendo la ragazza in terapia estroprogestinica, la causa dell’episodio trombotico viene attribuita al trattamento ormonale e dopo tre mesi, la terapia anticoagulante viene sospesa.

Tuttavia, una recidiva della trombosi venosa dopo appena un mese dalla sospensione della terapia fa capire che qualcosa di più importante si nasconde sotto la cenere. “Sono stata di nuovo ricoverata– spiega Alessandra- e di nuovo immobilizzata. Ero spaventatissima, ma per fortuna a Padova ho incontrato ottimi medici che hanno individuato la presenza di sindrome da anticorpi antifosfolipidi con triplice positività, la più severa”. Dopo questa diagnosi è arrivata una nuova preoccupante indicazione: “lei dovrà fare il coumadin tutta la vita” ma, soprattutto, “basta sport”. Una sentenza devastante perché lo “sport era la mia valvola di sfogo” – continua Alessandra. “Per due o tre anni ho effettivamente smesso. Poi, per fortuna, ho ripreso con il nuoto, e lì ho conosciuto anche mio marito che era il mio allenatore!

Fortunatamente oggi è ormai riconosciuto che riprendere l’attività sportiva, con gradualità ed evitando attività a forte rischio di traumatismi (se si è ancora in terapia anticoagulante) non solo è possibile, ma è consigliato, concordando con il proprio medico le modalità della ripresa e mettendo in atto alcune precauzioni (come il casco quando si va in bicicletta!).

Intanto arriva il momento della laurea in Chimica Farmaceutica. “Ho deciso di fare la tesi su questa patologia perché allora non si sapeva quasi nulla, c’era molta confusione e questa situazione mi aveva causato molta sofferenza” – spiega Alessandra. “Volevo aiutare le persone a non dover attraversare lo stesso doloroso iter che avevo affrontato io; volevo rendermi utile agli altri nel modo in cui potevo riuscirci, con la mia laurea”.

Alessandra è riuscita nel suo intento. Negli ultimi vent’ anni ha collaborato con i principali gruppi di ricerca internazionali sulla sindrome da anticorpi antifosfolipidi ed è coautrice di numerose pubblicazioni scientifiche. Un percorso che l’ha portata ad acquisire competenze uniche come ricercatrice e come paziente che l’hanno sostenuta nel fare una scelta tanto coraggiosa quanto consapevole, quella della maternità.

Ma, prima di arrivarci Alessandra deve superare un altro enorme scoglio: un neo sottovalutato da tutti (ma non da lei) si rivela un melanoma. Seguono l’intervento e le terapie, cinque anni di ulteriore attesa e poi, finalmente la tanto desiderata gravidanza che, per chi è affetto da APS è una vera prova del nove.

Infatti, l’elevato rischio di aborto e di trombosi imponeva, nel suo caso, una terapia per tutta la gravidanza con eparina a basso peso molecolare a dosi terapeutiche (due iniezioni al giorno) a cui è stata affiancata, a causa della gravità della patologia, anche la plasmaferesi (tecnica di separazione selettiva, dal sangue intero, del plasma, per rimuovere da questo gli anticorpi patologici) una volta a settimana.

Una vera avventura conclusasi meravigliosamente… con la nascita di un maschietto!

Quando sono uscita dall’ospedale con il mio bambino gli ho promesso che gli avrei dato un fratellino o una sorellina” -dice la ricercatrice, ma quando, due anni dopo, inizia una nuova gravidanza una equipe di medici le consiglia di interromperla.

Io però nel frattempo ero andata avanti con la ricerca, mi ero confrontata con esperti a livello internazionale ed ero convinta, anche da un punto di vista scientifico, di poterlo fare”.

Ed infatti, seguita da un gruppo di esperti dell’Ospedale di Brescia e con il supporto continuo del prof. Pengo, anche la seconda gravidanza termina con successo. “Io definisco i miei figli i miei due miracoli” -dice Alessandra con la voce rotta dall’emozione e dalla gioia di poter assaporare ogni giorno la felicità dei piccoli momenti che “alla gente che non ha problemi sfuggono, nel caos e nella frenesia della vita”.

Oggi la ricercatrice, oltre al nuoto ha ripreso anche la corsa, partecipa a numerose competizioni e “mi hanno detto di non smettere di fare sport perché è stata la mia salvezza” -conclude.

 

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