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Oltre 2 milioni di persone sono in terapia anticoagulante cronica in Italia con farmaci antivitamina K (AVK) o anticoagulanti orali diretti (DOAC). Terapie salvavita che richiedono alti livelli di competenza da parte dei medici che le gestiscono al fine di prevenire le possibili complicanze emorragiche o trombotiche e di trattarle al meglio qualora si verifichino. Ma chi deve occuparsi oggi di questi pazienti?

Con l’introduzione della nota 97 nel 2020 e la prossima attuazione della nota 101 è sempre più chiamata in causa la “medicina territoriale”, una denominazione “di moda” ma che rischia di nascondere un malcelato tentativo di delegare ai già oberati medici di medicina generale (MMG) terapie specialistiche senza un’adeguata connessione con l’ospedale ed i centri specialistici.

“La sostenibilità del SSN non è solo finanziaria– ha spiegato Nicola Magrini, ex direttore generale dell’AIFA e attuale Direttore della Qualità e Governo Clinico dell’Azienda USL Romagna–   Il COVID-19 ha dimostrato che abbiamo fatto fatica in quell’interfaccia che non c’è (tra medicina territoriale ed ospedale n.d.r.) e quindi occorrerebbe lavorare su una capacità comune di indirizzo a governare i nuovi farmaci”.

Un dialogo, quello tra specialisti e MMG, reso sempre più difficile dalla riduzione di centri di riferimento dove poter inviare i pazienti in terapia con anticoagulanti orali (DOAC o AVK) che, anche se correttamente seguiti dal MMG, possono necessitare di un consulto specialistico per la gestione di momenti “critici” (come il verificarsi di complicanze o la necessità di sospensione per interventi) o momenti decisionali importanti, come la valutazione in merito alla sospensione o meno della terapia dopo un primo episodio di tromboembolismo venoso (TEV).

Proprio quest’ultimo “nodo decisionale” è al centro dell’attuale dibattito sulla nota 101, come spiegato dal prof. Valerio de Stefano; “un testo molto corposo che può imbarazzare anche l’esperto perché non dà soluzioni semplici ed accessibili a tutti”- ha sottolineato il dott. Marco Moia, past president di FCSA. Il problema, ribadito dal prof.  Marongiu dell’Università di Cagliari, è che, nel dubbio, “nessuno sospende il trattamento anticoagulante dopo un primo episodio di TEV”, mantenendo in terapia pazienti che non ne necessitano con un rischio complessivo di emorragia del 3-4% all’anno.

C’è una banalizzazione di questa terapia e hanno pensato di “distruggere” i centri, per cui quando i medici vanno in pensione non li reintegrano” – ha detto Antonia Perosa, presidente di A.I.P.A Monopoli, proveniente proprio da quella regione Puglia che per prima, a livello nazionale, ha stabilito per delibera regionale che ci dovesse essere una rete dei centri per la sorveglianza delle terapie anticoagulanti. “Ma una cosa sono le delibere ed un’altra è la realtà” – ha chiosato la prof.ssa Elvira Grandone responsabile dell’Unità di Emostasi e Trombosi dell’IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo, confermando come la tendenza, su tutto il territorio nazionale sia quella di lasciar “spegnere” i centri, erodendo le competenze. “Nei grossi ospedali si può ancora pensare di mantenere il team annesso ad altri reparti come la cardiologia o la medicina interna, ma senza il “know how” del laboratorio di coagulazione, che è fondamentale, questi centri sono già spenti”.

E sono molti i laboratori specialistici di coagulazione che hanno cessato di esistere, come successo a quello del Policlinico Sant’Orsola Malpighi di Bologna alcuni anni fa, in una frenesia di centralizzazione che guarda i costi “diretti” senza pensare ai costi indiretti di una terapia mal condotta o di una patologia coagulativa non diagnosticata.

E’ sufficiente guardare il numero di richieste di consulenza che ci arrivano da tutti i reparti”- ha detto la dott.ssa Doris Barcellona, Direttore del Centro Emostasi e Trombosi dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Cagliari- “per capire come la figura dell’esperto in emostasi e trombosi sia essenziale e gli ospedali che ce l’hanno ne beneficiano grandemente. Però, chi si occupa di coagulazione lo deve fare a tutto tondo”.

Si tratta quindi non tanto di conservare centri che si occupino di prescrivere le terapie anticoagulanti, che con la riduzione del numero di pazienti in AVK e la “genericazione” dei DOAC saranno necessari in numero inferiore, ma  “che sia chiaro ed identificato a livello locale un posto dove un paziente che ha un problema (come un sanguinamento minore o la necessità di sospendere la terapia per una procedura) possa andare per risolvere il suo problema, anche se fa un DOAC”– ha spiegato il prof. Gualtiero Palareti, presidente di Fondazione Arianna Anticoagulazione ed A.I.P.A Bologna.

Infatti, come testimoniato dai pazienti, ciò che sta accadendo è che, con la chiusura dei centri specialistici (come è recentemente avvenuto per quello di Ferrara), i soggetti in terapia con AVK vengano riferiti ad ambulatori in cui fanno prelievi per l’INR, ricevano regolarmente la prescrizione per la terapia attraverso il fascicolo sanitario ma non abbiano la possibilità di interfacciarsi con nessun altro clinico se non il loro già sovraccaricato MMG, al quale oggi si richiede anche di essere un esperto di coagulazione!