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“Mi prende in un buon momento, di riposo, siamo appena tornati dalle gare per le qualificazioni ai mondiali” – e come è andata? “Bene” ci risponde Agostino Abbagnale, oggi allenatore della squadra azzurra, sempre disponibile a raccontare la sua storia “se può servire agli altri”. E la sua storia di certo può aiutare quanti, disorientati ed intimoriti da una diagnosi di trombosi venosa profonda, si trovano a fare i conti con le scelte quotidiane.

Ripercorriamo insieme le tappe di un lungo percorso che è iniziato da quello che per molti (forse tutti) è un arrivo: la medaglia d’oro per il canottaggio alle olimpiadi di Seul del 1988. “Avevo 22 anni, ero un atleta giovanissimo che veniva da una vittoria olimpica e pensava di poter continuare questa attività ancora per altri anni; invece si è trovato a confrontarsi con questi problemi e a doversi fermare con l’attività agonistica.” Infatti, dopo un allenamento “sentii un fastidio ad un polpaccio; pensai che fosse il classico dolore muscolare dovuto ad uno sforzo eccessivo e non gli diedi molto peso. Dopo alcuni giorni, visto che il dolore peggiorava, su consiglio del mio allenatore che era anche medico, ho iniziato a fare degli accertamenti. Tuttavia, allora (era il 1988 n.d.r.), ho incontrato grosse difficoltà nel giungere ad una diagnosi e a ad una terapia, difficoltà a cui si aggiungeva la compromissione dell’allenamento e la preoccupazione per le nuove gare”.

 Alla fine, la diagnosi di trombosi venosa profonda arriva e con essa la terapia, ma dopo alcuni mesi il problema si ripresenta, questa volta in modo più grave. Abbagnale viene ricoverato presso l’Ospedale di Pavia per una recidiva di trombosi venosa profonda e da quel momento, complice anche il riscontro di un’alterazione trombofilica su base ereditaria (un deficit di proteina C), inizierà la terapia anticoagulante cronica con il warfarin. Alle preoccupazioni iniziali legate alla gestione della terapia (che necessita di periodici controlli del sangue per l’INR) si aggiungono quelle, ben più importanti per lui, dovute allo stop imposto dalla Commissione Medica del CONI. Infatti, “all’epoca non c’era nessun tipo di ricerca che potesse supportare l’attività sportiva agonistica in corso di terapia anticoagulante, quindi mi sono dovuto fermare per sei anni”.

Alla fine però il Coumadin mi ha portato fortuna” – ha scherzato Abbagnale, riferendosi al fatto che di ori olimpici, poi, ne ha vinti altri due (ad Atlanta nel 1996 e Sydney nel 2000 n.d.r). Ma non è stato facile. “Dopo le prime fasi iniziali, in cui ho dovuto affrontare questa brutta notizia, ho deciso autonomamente di continuare l’attività sportiva, anche se non agonistica. Era la cosa che mi piaceva fare e ho continuato a farla”. Fortunatamente “il medico che mi ha seguito in tutte queste fasi, il dott. Piovella di Pavia, mi ha sempre incoraggiato a fare una vita normale e a continuare l’attività sportiva ma soprattutto è riuscito, presentando le evidenze scientifiche prodotte negli anni successivi, a far riaprire la commissione medica del CONI e a farmi ottenere l’autorizzazione a gareggiare” – ci racconta Abbagnale con una punta di emozione.

Fortunatamente, la trombosi in sé mi ha lasciato solo qualche fastidio alla gamba e la “seccatura” di dover indossare la calza elastica, anche durante gli allenamenti, ma siamo riusciti a superare anche questa cosa” – scherza il campione olimpico. “Dall’anno scorso si è deciso di passare ai nuovi farmaci anticoagulanti (DOAC n.d.r), con i quali in effetti mi sento più tranquillo, non solo perché non devo fare più i controlli (dell’INR n.d.r) ma anche perché non devo prestare così tanta attenzione agli alimenti. Diciamo che sicuramente c’è stato un miglioramento della qualità di vita” – ha concluso Agostino, ma non prima di dirci che “spesso mi chiamano ragazzi, anche atleti, con situazioni simili alla mia che mi chiedono informazioni riguardo a questo tipo di problema”, e il messaggio non può essere che di incoraggiamento.

Guarda la storia, raccontata per noi da Agostino Abbagnale nel 2017