Tutto iniziò una mattina di agosto di qualche anno fa quando, alzandomi dal letto, non riuscii ad appoggiare a terra il piede sinistro a causa di un forte dolore al polpaccio. Dopo vari controlli, la diagnosi fu trombosi venosa profonda (TVP). Da allora, mio malgrado, mi sento parte del “Gruppo” (ovviamente dei pazienti cronici). Essendo una persona relativamente giovane, in buona forma e anche sportivo, fui inserito in un gruppo di studio di indagine approfondita perché nessuna causa apparente giustificava la diagnosi. Purtroppo, nonostante svariati esami, compresi i test genetici, non emerse nulla.

La conclusione (anche se con “malincuore scientifico”) fu quella di essere uno dei tanti pazienti con TVP. Senza alcuna ragione motivata.
I medici del Centro di Emostasi e Trombosi a cui mi rivolsi mi dissero subito, nei limiti del possibile e con le dovute cautele, di non modificare il mio stile di vita e così ho fatto in questi anni, sin da quando iniziai ad assumere il primo anticoagulante orale (allora diffusissimo e praticamente unico, il Coumadin), che necessitava di un monitoraggio del suo effetto tramite il controllo del tempo di protrombina (PT) per essere correttamente dosato. Vista la “stabilizzazione” raggiunta della dose di farmaco necessaria per le mie esigenze e stante la mia “non sedentarietà” i medici, basandosi sulla loro esperienza e sulla letteratura scientifica in materia, ritennero opportuno provare a interrompere la cura: purtroppo però, dopo 20 giorni scarsi, una recidiva del problema comparve all’arto destro (sino ad allora “sano”).

Casualmente tutto successe il venerdì sera quando sentii un primo fastidio al polpaccio; con testardaggine e commettendo un grave errore, aspettai il lunedì mattina per presentarmi in ospedale. In quel momento il fastidio, presente da ore, era già arrivato alla coscia (ricevetti giustamente un durissimo rimprovero da parte dei medici per questo mio comportamento).
Dopo questo episodio, mi convinsi che avrei dovuto restare in terapia anticoagulante “a vita”: i medici però questa volta optarono per un DOAC, un anticoagulante orale diretto. Con questo nuovo farmaco, che non richiede più il prelievo per il tempo di protrombina in quanto “autodosante”, la mia vita è migliorata notevolmente, sino quasi a tornare alla “normalità”. Lo assumo ogni giorno a stomaco pieno, effettuo due controlli del sangue a distanza di 6 mesi: un esito lo valuta il medico di famiglia e l’altro lo staff preposto dell’ospedale per il rinnovo annuale del piano terapeutico.

Rispetto alla terapia classica precedente ho notato un sanguinamento minore (anche se di difficile interpretazione poiché personale) unito al fatto che, interrompendo l’assunzione, si ripristina molto più velocemente il livello standard di coagulazione, cosa molto utile in caso di piccolo intervento, estrazione dentale, e così via (tutto ovviamente da valutare sempre sotto controllo medico).
Altro piccolo vantaggio, per me che sono un “mangione”, il fatto di poter tornare a divorare cavoli, spinaci e altre verdure senza alcun limite quando, col vecchio farmaco, una certa attenzione andava tenuta in quanto la vitamina K degli alimenti contrasta l’azione del Coumadin (la moderazione è la chiave: consulta l’articolo “Stop alle verdure a foglia larga? No grazie!“).

Unico piccolo rammarico, quello di non poter più incontrare la “grande famiglia di amici” nella corsa mattutina in ospedale per guadagnare una posizione anticipata per il prelievo (necessaria per poter raggiungere poi il lavoro anticipatamente) e sentire anche tutti i loro racconti, scambiare impressioni di vita, commenti e le “suonerie delle loro sveglie” che immancabilmente si attivavano in sala di attesa: un “tocco di umanità” fondamentale nel quotidiano.

A cura di Luigi Bianchi

Paziente