Gli inibitori del fattore XI, pur risultati promettenti nei primi studi sulla prevenzione del tromboembolismo venoso dopo chirurgia ortopedica, presentano luci ed ombre ancora da chiarire. Un recente studio pubblicato su Science ha evidenziato un possibile ruolo del fattore XI nel proteggere il cuore.
La ricerca farmacologica si sta spingendo oltre i tradizionali anticoagulanti orali diretti (DOAC). I DOAC, pur essendo efficaci, sono infatti ancora gravati da un discreto rischio emorragico. La fisiopatologia dell’emostasi e la pratica clinica ci hanno insegnato come i fattori di contatto della coagulazione (FXII, pre-callicreina e chininogeno ad alto peso molecolare), pur allungando (e di molto) il tempo di tromboplastina parziale attivato, non abbiano un ruolo fondamentale nel processo emostatico che opera in vivo. Le ragioni di ciò non sono note con certezza, ma è certo che il paziente carente (anche totale) di una di queste proteine non sanguina, neanche dopo intervento chirurgico. Questa situazione, apparentemente paradossale, riguarda, sebbene in misura minore, anche il FXI, la cui carenza si associa ad eventi emorragici, ma in misura assai minore rispetto ad altri fattori. È noto però che i fattori di contatto possano avere un ruolo nella trombosi e questo apparente paradosso è stato preso in seria considerazione dai ricercatori. Siamo tutti alla disperata ricerca del farmaco anticoagulante ideale. Una specie di “Santo Graal”, che sia possibilmente efficace per limitare la trombosi, ma sicuro per evitare il sanguinamento. Allora, quale migliore candidato da prendere in considerazione, se non uno (o più fattori) della via di contatto, caratterizzati da scarso impatto emorragico e (forse) alto impatto antitrombotico?
L’idea è quella di inibire l’attività di uno di questi fattori, supponendo che la sua perdita di attività non abbia impatto sul rischio emorragico, ma ne abbia quanto basta sul rischio trombotico. Come i lettori del portale sanno, l’industria ha sposato questo progetto e il fattore che finora ha riscosso notevole interesse (e anche qualche successo) è il FXI. Sono stati sviluppati dei farmaci, inizialmente per uso endovena e successivamente per uso orale, capaci di inibire il FXI, attivato e zimogeno e sono stati valutati per efficacia e sicurezza in alcuni studi per la prevenzione del tromboembolismo venoso postoperatorio nella chirurgia del ginocchio, nei quali uno di essi è risultato sicuro ed efficace rispetto al comparatore (EBPM) (Verhamme P et al. N Engl J Med 2021; 385: 609-617). Lo stesso farmaco è stato valutato per la sicurezza (ma non per l’efficacia) in un altro studio in pazienti con fibrillazione atriale, nel quale è risultato più sicuro per eventi emorragici rispetto al comparatore (apixaban) (Piccini JP, et al. Lancet 2022; 399:1383-90). Un terzo studio di fase II ha valutato lo stesso farmaco nella prevenzione secondaria in pazienti con ictus ischemico non-cardioembolico, nel quale è risultato sicuro, ma non efficace, anche se l’analisi post-hoc, avrebbe dimostrato un qualche beneficio nel sottogruppo di pazienti con aterosclerosi (Shoamanesh A, et al. Lancet 2022; 400):997-1007). Sembrerebbe quindi che il percorso dell’inibitore del FXI, prima salutato con tanto entusiasmo, abbia luci e ombre. Tuttavia, prima di dare giudizi definitivi è ragionevole aspettare lo studio di fase III sulla fibrillazione atriale.
Nel frattempo però, altre nubi si addensano su questo nuova molecola. Recentissimamente, un gruppo di ricercatori ha pubblicato sulla prestigiosa rivista Science risultati che documenterebbero un effetto “cross-talk” fra fegato e cuore, mediato dal FXI, che viene prodotto dal fegato (Cao Y, et al. Science 2022;3 77: 1399-406). Il FXI avrebbe un effetto protettivo per il cuore, riducendo il rischio di disfunzione diastolica, una forma comune di insufficienza cardiaca con normale frazione di eiezione. Lo studio in questione si riferisce a una ricerca di base su modello animale ed è quindi prematuro azzardare giudizi, tuttavia, se l’ipotesi dei ricercatori fosse corretta e supportata da dati clinici, sull’uomo, indurrebbe a pensare che una carenza di attività del FXI, indotta dal farmaco anticoagulante, potrebbe essere utile per l’anticoagulazione, ma non per l’insufficienza cardiaca.