Non è ancora chiaramente definito il paziente a cui prescrivere una tromboprofilassi estesa dopo la dimissione ma in una quota non irrilevante di pazienti può essere ragionevole prolungare il trattamento fino a quattro settimane.

Il tromboembolismo venoso (TEV), comprendente due entità patologiche distinte ma strettamente correlate, la trombosi venosa profonda (TVP) e l’embolia polmonare (EP), rappresenta una delle maggiori cause di morbilità e mortalità nei paesi occidentali con un’incidenza stimata di circa 1,5 per 1000 abitanti all’anno [1]. I pazienti ricoverati per patologia medica acuta hanno un’incidenza di tromboembolismo venoso otto volte superiore rispetto alla popolazione generale. Tuttavia, vi sono dati di letteratura che dimostrano che in una considerevole percentuale di pazienti candidati alla profilassi del TEV, questa sia scarsamente utilizzata o prescritta in modo inappropriato. Ad esempio, nello studio italiano GEMINI [2], condotto su 4846 pazienti internistici ricoverati, la profilassi del TEV era stata impiegata nel 41,6% del totale e solo nel 58,7% dei pazienti per cui sarebbe stata raccomandata.
Le ragioni di questa scarsa penetrazione della tromboprofilassi nella pratica clinica risiedono probabilmente nel fatto che, diversamente da quanto accade per la chirurgia generale ed ortopedica, il rischio di TEV nel paziente internistico non è legato ad una circostanza clinica di immediato riconoscimento, come l’intervento chirurgico. Il paziente medico presenta una molteplicità di fattori predisponenti personali (come l’età avanzata, la presenza di co-patologie come lo scompenso cardiaco, l’insufficienza respiratoria, l’insufficienza renale ecc..) su cui si sovrappongono altri fattori precipitanti (come l’immobilità legata al ricovero ospedaliero, le infezioni, ecc). Ne consegue una profonda eterogeneità del rischio di TEV che rende difficile la corretta selezione del paziente candidato alla profilassi.

Quali pazienti sottoporre a profilassi del TEV?

A questo proposito, nel corso degli anni sono stati proposti diversi modelli di determinazione del rischio di TEV e, tra questi, il più utilizzato è il Padua Prediction Score [3]: esso individua 11 fattori di rischio a cui è assegnato un punteggio specifico in base al peso relativo nell’incidenza di TEV e permette di differenziare i pazienti internistici in una categoria a basso rischio (Padua Score < 4) e una ad alto rischio (Padua score ≥4) (Tabella 1). La validazione dello score è avvenuta in 1180 pazienti internistici consecutivi ricoverati nell’arco di 2 anni: la frequenza del TEV sintomatico è stata del 2.2% tra i pazienti ad alto rischio che ricevevano la profilassi e dell’11% tra quelli che non la ricevevano; le complicanze emorragiche maggiori si sono verificate nell’1.6% dei pazienti ad alto rischio sottoposti a profilassi. Sulla base di questi risultati, le linee guida ACCP [4] raccomandano l’utilizzo del Padua Score per la stratificazione del rischio di TEV nei pazienti internistici e l’individuazione dei soggetti ad alto rischio che necessitano di profilassi. Nelle più recenti linee guida ASH [5], redatte nel 2018, compare anche un altro score, l’IMPROVE VTE [6] da utilizzare in alternativa al Padua (Tabella 2): in questo caso, un punteggio ≥ 2 identifica i pazienti ad alto rischio. La valutazione del paziente internistico candidato alla profilassi del TEV non deve ovviamente prescindere dalla stima del rischio emorragico, tanto più che, a rendere ancora più difficile la gestione, molti fattori di rischio per trombosi sono anche fattori di rischio per emorragia. A tale proposito le linee guida, sia ACCP che ASH, propongono uno score di rischio l’IMPROVE BLEEDING [7], illustrato in tabella 3, in cui un punteggio ≥ 7 indica pazienti ad alto rischio di sanguinamento in cui la tromboprofilassi farmacologica è controindicata.

Quale profilassi?

In questo caso le linee guida si muovono nella stessa direzione ma con alcune differenze: mentre le linee guida ACCP raccomandano fortemente (grado 1 B) l’utilizzo della profilassi farmacologica con eparina a basso peso molecolare (EBPM) o eparina non frazionata a bassa dose o fondaparinux, le linee guida ASH distinguono l’intensità della raccomandazione a seconda del setting in cui si trova ricoverato il paziente suggerendo una profilassi con farmaco parenterale (preferibilmente EBPM o fondaparinux) per il paziente ricoverato in setting a bassa intensità, e raccomandando fortemente la profilassi nel paziente degente in un setting intensivo. Di fatto, il messaggio finale è quello di adottare la profilassi farmacologica in tutti i pazienti ad alto rischio di TEV riservando la profilassi meccanica con calza a compressione graduata o compressione pneumatica intermittente ai pazienti ad alto rischio emorragico poiché, seppur con basso grado di evidenza (2 C nelle linee guida ACCP, suggerimento nelle ASH) , è preferibile rispetto a nessuna profilassi. Le evidenze sul beneficio della profilassi del TEV con eparine o fondaparinux sono ormai consolidate e si basano essenzialmente su tre studi clinici randomizzati controllati di fase III: MEDENOX [8], di confronto tra enoxaparina e placebo, PREVENT [9], di confronto tra dalteparina e placebo, e ARTEMIS [10], di confronto tra fondaparinux e placebo. Tutti e tre i trial hanno dimostrato una riduzione significativa del rischio di TEV associata, nei trial MEDENOX e ARTEMIS, ad una riduzione, seppur non significativa, della mortalità totale. Occorre sottolineare che, dei tre farmaci considerati, in Italia solo enoxaparina e fondaparinux possiedono l’indicazione formale alla profilassi nel paziente internistico; per dalteparina, invece, tale indicazione non è contemplata dalla scheda tecnica. Merita una considerazione a parte il problema della gestione del paziente con insufficienza renale, condizione che interessa circa il 40% dei pazienti affetti da una patologia medica acuta e che si associa sia ad un incremento del rischio trombotico che emorragico. In questo contesto si inserisce lo studio FONDAIR [12] il cui scopo è stato quello di valutare efficacia e sicurezza di una dose profilattica ridotta di fondaparinux (1.5 mg in luogo di 2.5 mg) nei pazienti affetti da patologia medica acuta ed insufficienza renale. Sono stati inclusi pazienti ad alto rischio di TEV e clearance della creatinina tra 20 and 50 mL/min, trattati con fondaparinux 1.5 mg die per un minimo di sei giorni e un massimo di 15 giorni; l’outcome primario era rappresentato dalle complicanze emorragiche maggiori, l’outcome secondario dalle emorragie non maggiori ma clinicamente rilevanti (CRNMB) e dal TEV sintomatico. Durante il follow up, un solo paziente ha avuto un’emorragia maggiore (0.49%, 95% confidence interval [CI] 0.03-3.10), 8 pazienti un CRNMB (3.88%, 95% CI 1.81-7.78) , 3 hanno sviluppato un evento di TEV (1.46%, 0.38-4.55), e 23 sono deceduti. In conclusione, il farmaco si è dimostrato sicuro ed abbastanza efficace.

C’è spazio per i DOAC?

Le linee guida ACCP, pubblicate nel 2012, non fanno riferimento agli anticoagulanti orali diretti (DOAC) come possibile opzione per la profilassi del TEV in medicina interna; le più recenti linee guida ASH, invece, danno una forte raccomandazione a sfavore dell’uso dei DOAC sia per la fase acuta, che per quella post-acuta. Questa indicazione deriva dall’analisi degli studi ADOPT [12], MAGELLAN [13] ed APEX [14] in cui rispettivamente apixaban, rivaroxaban e betrixaban sono stati confrontati con enoxaparina in un disegno randomizzato controllato. Nei primi 2 trial citati, dopo una prima fase di 10-14 giorni (fase acuta) di confronto diretto con eparina alla dose profilattica di 40 mg al giorno, i pazienti hanno proseguito con il placebo o il DOAC. I risultati dimostrano che in termini di efficacia, globalmente i due DOAC siano paragonabili ad enoxaparina nella fase acuta; la terapia prolungata con apixaban non ha ridotto in maniera statisticamente significativa gli eventi tromboembolici cosa che invece si è verificata per rivaroxaban. Tuttavia, entrambi i DOAC hanno determinato un tasso significativamente più elevato di sanguinamenti maggiori e/o clinicamente rilevanti rispetto ad enoxaparina; pertanto il beneficio, peraltro modesto, in termini di efficacia è stato perso in termini di complicanze emorragiche. Sorprendentemente, ben diversi sono stati i risultati per betrixaban: 7500 pazienti sono stati randomizzati ad un programma che prevedeva l’enoxaparina 40 mg per 6-14 giorni od il betrixaban 80 mg in unica somministrazione orale per 35-42 giorni a condizione che fosse prevista l’immobilità e fosse presente un fattore aggiuntivo di rischio per trombosi venosa. Nell’intera coorte è stata registrata la superiorità del betrixaban nei confronti dell’enoxaparina, con una riduzione del TEV statisticamente significativa (5.3% vs 7.0%; p=0.006), e non bilanciata da un aumento del rischio di emorragie maggiori, risultato basso in entrambi i gruppi di trattamento (rispettivamente 0.7% e 0.6%). Una possibile spiegazione di questo successo può risiedere nella più accurata identificazione dei pazienti meritevoli del prolungamento terapeutico, nella migliore tollerabilità renale del betrixaban, e nella scelta più mirata del dosaggio (dimezzato per pazienti con clearance della creatinina < 30 ml/min). Tuttavia, i redattori delle linee guida non hanno considerato questi risultati così rilevanti da modificare le indicazioni e, in ogni caso, il betrixaban non è disponibile in Europa.

Quanto a lungo trattare il paziente?

Una peculiarità del paziente internistico è che, anche dopo il superamento della fase acuta, molti fattori di rischio per TEV, primo tra tutti la ridotta mobilità, permangono anche dopo la dimissione dall’ospedale. L’evidenza che una quota rilevante degli episodi di TEV diagnosticati in ambito ambulatoriale avviene entro i 3 mesi che seguono un’ospedalizzazione, e che la maggior parte di essi si verifica entro un mese da un ricovero precedente [15], è uno dei motivi che hanno indotto a verificare il potenziale beneficio di una profilassi antitrombotica prolungata, ovvero oltre i canonici 10-14 giorni. Fino all’avvento dei DOAC, l’unico studio condotto per questa finalità era lo studio EXCLAIM [16] che ha verificato se una profilassi prolungata con enoxaparina alla dose di 40 mg/die per 10 ± 4 giorni, seguiti da ulteriori 28±4 giorni potesse essere più efficace ed abbastanza sicura rispetto alla durata standard della stessa EBPM somministrata per il periodo canonico cui faceva poi seguito il placebo per 28±4 giorni. Nei 5105 pazienti su cui è stata condotta l’analisi principale, la profilassi prolungata si è rivelata in grado di ridurre significativamente il rischio di TEV (dal 4% al 2.5%) ma al prezzo di un aumento delle emorragie maggiori (0.8% versus 0.3%). Come già illustrato in precedenza, analoga sorte è toccata ai DOAC il cui utilizzo, nei sopracitati studi MAGELLAN ed ADOPT, non ha mostrato un benefico clinico netto né per la terapia prolungata né per quella della fase acuta. Anche il successivo studio MARINER [17], in cui 12.019 pazienti, appena dimessi dall’ospedale, sono stati randomizzati ad un trattamento di 45 giorni con rivaroxaban 10 mg (ridotto a 7,5 mg nei pazienti con ridotta funzionalità renale) o placebo, non ha raggiunto l’endpoint prefissato. Infatti, è stata riscontrata una riduzione dell’incidenza di TEV sintomatico non fatale, mentre non è stato evidenziato alcun impatto sull’incidenza di TEV fatale.  Sulla base di questi dati, le linee guida ACCP, cosi come le ASH, non raccomandano la profilassi prolungata nei pazienti medici, così come il suo impiego routinario viene scoraggiato per tutte quelle condizioni croniche caratterizzate da ipomobilità in cui il rischio di TEV non è ben definito e per le quali non vi sono, ad oggi, forti evidenze da studi clinici.

Quali conclusioni

  • La prevenzione primaria del TEV nel paziente internistico ospedalizzato riduce gli eventi embolici fatali e la morbilità associata ad un evento tromboembolico
  • L’uso del Padua prediction score e dell’Improve bleeding score, indirizzano utilmente il clinico nella scelta della migliore strategia di prevenzione nella fase di ospedalizzazione
  • Non è ancora chiaramente definito il paziente a cui prescrivere una tromboprofilassi estesa dopo la dimissione ma in una quota non irrilevante di pazienti può essere ragionevole prolungare il trattamento fino a quattro settimane
  • Una personalizzazione della prevenzione estesa del TEV deve basarsi su una attenta valutazione individuale del rischio trombotico ed emorragico
  • fattori clinici predittivi di rischio emorragico o trombotico sono da considerare con particolare attenzione
  • E’ ragionevole che dopo un mese di trattamento anche nei pazienti allettati la tromboprofilassi debba essere sospesa. In questi pazienti la profilassi dovrà essere ripresa nei periodi di aumentato rischio legato a patologie acute


Tabella 1.
  Padua Prediction Score

  Condizione di rischio Punti
  Neoplasia attiva  3
  Precedente TEV 3
  Ipomobilità 3
  Trombofilia nota 3
  Trauma o chirurgia recenti 2
  Età ≥ 70 anni 1
  Scompenso cardiaco/insufficienza respiratoria 1
  Infarto miocardico acuto/Ictus acuto 1
  Infezione acuta e/o malattia reumatologica  1
  Obesità  1
  Trattamento ormonale in atto  1


Tabella 2.
  IMPROVE VTE

  Condizione di rischio Punti
  Precedente TEV  3
  Trombofilia nota 2
  Paralisi arti inferiori 2
  Cancro attivo 2
  Immobilizzazione 1
  Degenza in terapia intensiva o unità coronarica 1
  Età > 60 anni 1

Tabella 3.  IMPROVE BLEEDING

  Condizione di rischio Punti
  Insufficienza renale moderata (clearance creatinina 30-59 ml/min)  1
  Sesso maschile 1
  Età 40-84 anni 1.5
  Cancro attivo 2
  Malattia reumatologica 2
  Catetere venoso centrale 2
  Ricovero in terapia intensiva 2.5
  Insufficienza renale severa ( clearance creatinina < 30 ml/min) 2.5
  Insufficienza epatica (INR > 1.5) 2.5
  Età ≥ 85 anni 3.5
  Piastrinopenia (< 50000) 4
  Recente sanguinamento (< 3 mesi) 4
  Ulcera gastrica 4.5

Di Caterina Cenci e Domenico Prisco

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