Nel giugno di quest’anno la Prof. Cecilia Becattini e colleghi hanno pubblicato un importante e vasto studio sulla diagnosi, il trattamento e la mortalità di 5213 pazienti (età 70 + 16 anni, 52.3% donne) con embolia polmonare (EP) acuta sintomatica. Lo studio, the COntemporary management of Pulmonary Embolism (COPE), prospettico, multicentrico e di non intervento, aveva lo scopo di valutare l’attuale gestione e gli esiti di questa patologia (1).

Il lavoro riporta la mortalità intra ospedaliera e a 30 giorni in totale e secondo la stratificazione del rischio seguendo le linee guida della European Society of Cardiology (ESC) e dell’American Heart Association (AHA) (1). La diagnosi di EP era confermata dalla TC nel 96.3% dei casi. Un totale di 289 pazienti andò incontro a riperfusione (5.5%), il 92.1% ha ricevuto inizialmente una terapia anticoagulante parenterale: eparina non frazionata (23.6%), eparina a basso peso molecolare (52.9%) e fondaparinux (23.6%).
Alla dimissione, il 75.6% dei pazienti ha ricevuto un trattamento con anticoagulanti orali diretti (DOAC) mentre il 6.7% è stato avviato ai cumarinici (AVK). Questo rappresenta un’importante novità sull’uso dei DOAC nel trattamento dell’EP.

 

La mortalità a 30 giorni

La mortalità intra-ospedaliera e a 30 giorni è risultata in totale rispettivamente del 3.4% e del 4.8%. La mortalità intra-ospedaliera è stata del 20.3% nei pazienti ad alto rischio (n=177), del 4.0% nei pazienti a rischio intermedio e dello 0.5% nei pazienti a basso rischio.
La mortalità a 30 giorni è stata del 22.6 % nei pazienti ad alto rischio, rispettivamente del 6.0% e dello 0.5% in quelli a rischio intermedio e basso.
La mortalità o il deterioramento clinico sono risultati del 1.5. 5.0 e 9.4% nel rischio basso, intermedio-basso e intermedio-alto.
Un dato importante è quello emerso dall’uso dello sPESI (simplified Pulmonary Embolism Severity Index) che se uguale a 0 ha un valore predittivo negativo che arriva al 99.7% per la mortalità a 30 giorni. Se si osservano le caratteristiche dei pazienti si nota che in una percentuale superiore al 10% erano presenti: precedente tromboembolismo venoso (16.9%), il cancro (16.8%), l’ospedalizzazione del mese precedente (13.7%), un difetto cognitivo (10.1%) la broncopneumopatia cronica ostruttiva (12.5%) e l’obesità (21.1%). Gli autori però hanno messo in evidenza le seguenti condizioni predittive per morte intra-ospedaliera, deterioramento clinico a 30 giorni: l’abbassamento della pressione arteriosa, l’aumento della frequenza cardiaca e respiratoria, la broncopneumopatia cronica ostruttiva, il cancro attivo, l’allettamento per più di tre giorni, la dilatazione del ventricolo destro all’ecocardiogramma, l’insufficienza renale e l’aumentato livello di troponina (un indice di necrosi miocardica). È stata anche trovata un’associazione tra l’utilizzo del trombolitico e la morte intra-ospedaliere a 30 giorni, probabilmente a causa della severità di base della patologia embolica.

L’ipertensione come fattore protettivo

L’abbassamento della pressione arteriosa è in linea con quanto ha trovato il nostro gruppo in uno studio sulla mortalità dell’embolia polmonare in Sardegna (2) nel quale l’ipertensione arteriosa era risultata un fattore protettivo probabilmente perché i pazienti ipertesi sviluppano meno un’ipotensione severa al momento dell’evento embolico.
Un altro dato interessante dello studio COPE è l’assenza di trombosi venose periferiche concomitantemente alla presenza di una embolia polmonare in circa il 40% dei casi. Questo fatto fa pensare che non tutte le embolie polmonari fossero tali ma che in realtà si fosse trattato di trombosi polmonari come è stato dimostrato (3). La flogosi locale infatti può, come ad esempio nella broncopneumopatia cronica ostruttiva, attivare la coagulazione con deposizione di fibrina intra-polmonare (4).

Gli autori dello studio COPE concludono affermando che la mortalità dovuta all’embolia polmonare, pur se inferiore a quella riportata negli anni scorsi, è pur sempre elevata. Propongono un miglioramento  delle risorse in termini di ospedalizzazione, diagnosi e stratificazione del rischio unitamente alla creazione di percorsi dedicati. Aggiungiamo che un controllo periodico di questi pazienti, in trattamento con i DOAC presso i Centri Emostasi e Trombosi sarebbe da auspicare per migliorarne il decorso post ospedaliero.

 

Bibliografia

1.Becattini C, Agnelli G, Maggioni AP, Dentali F, Fabbri A, Enea I, Pomero F, Ruggieri MP, di Lenarda A, Cimini LA, Pepe G, Cozzio S, Lucci D, Gulizia MM; COPE Investigators. Contemporary Management and Clinical Course of Acute Pulmonary Embolism: The COPE Study. Thromb Haemost. 2023;123:613-626.

2.Mameli A, Palmas MA, Antonelli A, Contu P, Prandoni P, Marongiu F. A retrospective cohort study of patients with pulmonary embolism: the impact of comorbidities on patient’s outcome. Eur Respir J 2016;48(2):555-7.

3.van Langevelde K, Srámek A, Vincken PW, et al. Finding the origin of pulmonary emboli with a total-body magnetic resonance direct thrombus imaging technique. Haematologica 2013;98:309–315.

4.Marongiu F, Mameli A, Grandone E, Barcellona D. Pulmonary Thrombosis: A Clinical Pathological Entity Distinct from Pulmonary Embolism? Semin Thromb Hemost 2019;45:778-783.

 

Di Doris Barcellona e Francesco Marongiu