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Per trombosi venosa profonda distale isolata (IDDVT) si intende una trombosi venosa confinata nelle vene profonde al di sotto del ginocchio. A sua volta se ne distingue una variante ‘assiale’ quando sono interessate le vene tibiali (anteriori o posteriori) e/o le vene peroniere; ed una variante ‘muscolare’ quando sono interessate vene muscolari senza il coinvolgimento delle vene assiali. La IDDVT è stata a lungo guardata con benignità, al punto da ritenerne superfluo il riconoscimento diagnostico. E molte Linee Guida, anche tra le più recenti ed accreditate, danno ancora indicazione per la sola sorveglianza ecografica della trombosi, evitando il ricorso alla terapia anticoagulante, per lo meno nei soggetti a minor rischio di estensione o recidiva (1).

Flebografia di arto inferiore. Esempio di trombosi venosa distale isolata. Piccoli difetti di vena del gastrocnemio (frecce)

Alcuni contributi recenti della letteratura scientifica hanno però sollevato dubbi sulla presunta benignità di tale complicanza vascolare. Un paio di anni fa sono stati pubblicati i risultati dello studio multicentrico italiano RIDTS, studio controllato in cui un’ampia serie di pazienti con IDDVT, prescindendo dalla localizzazione, esenti da neoplasie od altri fattori di rischio persistenti sono stati randomizzati a ricevere 6 o 12 settimane di rivaroxaban alle dosi convenzionalmente impiegate per la terapia della TVP prossimale (2). Venendo a premiare il trattamento prolungato, lo studio RIDTS ha finito per dare un indiretto poderoso supporto alla necessità stessa della terapia anticoagulante nelle IDDVT. Se, difatti, sei settimane si sono rivelate insufficienti, non è difficile immaginare l’esito della mancata instaurazione di qualsiasi terapia antitrombotica. A seguire, lo studio controllato ONCO-DVT ha dimostrato in un’ampia serie di neoplastici con IDDVT il vantaggio di 12 mesi nei confronti di 3 mesi di anticoagulazione con dosi terapeutiche di edoxaban (3). Infine, le ricerche di questi ultimi anni, sia pure con limiti di varia natura, hanno suggerito che anche le TVP sottopoplitee sono gravate, sia pure in misura inferiore a quelle prossimali, da un rischio non sottovalutabile di sequele post-tromboflebitiche, la cui prevenzione passa anche e soprattutto attraverso una corretta gestione antitrombotica delle trombosi iniziali, come risulta da una recente meta-analisi degli studi disponibili (4).

Ad alimentare ulteriormente la consapevolezza che la TVP, anche quando confinata nelle vene sottopoplitee, meriti di essere presa in attenta considerazione si sono resi disponibili in questi giorni i risultati di due ricerche, che andremo ad analizzare.

Studio TODI

Cominciamo con i risultati di uno studio multicentrico italiano (TODI), pubblicati in una prestigiosa rivista ematologica (5). Si tratta di una riproposizione dei risultati, sin qui inediti, di una vecchia indagine, ma non per questo meno rilevante. Si tratta di una coorte indagata ai tempi (tra il 2005 ed il 2007) in cui i DOAC non erano ancora disponibili. L’interesse nasce dal fatto che allora la maggior parte dei curanti (anche per mancanza di univoche raccomandazioni) gestiva la IDDVT con la sola eparina a basso pm per la durata di sei settimane. I ricercatori dello studio TODI si sono fatti promotori di uno studio prospettico controllato che prevedeva la randomizzazione ad un trattamento con eparina a basso pm per sei settimane (dosi piene per due settimane, seguite da dosi sub-terapeutiche per le altre 4) o ad eparina basso pm embricata con warfarina per 12 settimane in una serie consecutiva di pazienti con IDDVT, esenti da cancro od altri fattori persistenti di rischio trombotico. Lo studio avrebbe dovuto includere un numero superiore di pazienti, ma è stato interrotto dopo l’arruolamento dei primi 260 per il raggiungimento dell’endpoint primario di efficacia, vale a dire la superiorità del trattamento prolungato nei confronti di quello più breve in termini di estensione o recidiva sintomatiche di tromboembolismo venoso in un follow-up di sei mesi. E’ interessante il rilievo che nel TODI, così come nel RIDTS, in ciascuno dei due sottogruppi all’incirca la metà dei pazienti presentava una TVP assiale, mentre l’altra metà presentava una TVP muscolare che risparmiava le vene assiali. Così come nel RIDTS, anche nel TODI la frequenza di estensioni o recidive tromboemboliche sintomatiche è stata nettamente inferiore tra i pazienti assegnati a tre mesi di cura, senza penalizzazioni per i pazienti sul piano del rischio emorragico. Il risultato favorevole al trattamento prolungato con dicumarolici ha riguardato ciascuno dei principali sottogruppi pre-identificati, con particolare riferimento alla distribuzione anatomica (assiale o muscolare) della TVP basale. Rilievo che trova totale analogia con quello in precedenza riscontrato dallo studio RIDTS.

GARFIELD-VTE

Analizziamo ora il secondo studio. Trattasi del follow-up a lungo termine della maggiore casistica sin qui indagata con le finalità di registrare lo sviluppo di sindrome post-tromboflebitica (PTS), valutata con lo score di Villalta, nei pazienti con IDDVT reclutati nel registro mondiale GARFIELD VTE, prescindendo dalla tipologia e durata del trattamento, che erano a discrezione dei singoli investigatori (6). In 754 pazienti consecutivi con IDDVT registrati per le finalità del GARFIELD VTE e seguiti fino a tre anni, una PTS è stata documentata in 160 (21.2 %): lieve in 119 (15.8 %), moderata in 31 (4.1 %), e severa nei rimanenti 10 (1.3 %). Ne risultavano più penalizzati i soggetti di sesso femminile, i cardiopatici, i soggetti reduci da immobilizzazione cronica e quelli che avevano una storia di pregressi episodi tromboembolici, mentre un recente trauma od intervento chirurgico appariva un fattore protettivo. I risultati del registro GARFIELD VTE vengono a colmare una lacuna scientifica di vaste proporzioni. Consentono infatti una volta per tutte di stabilire che la PTS è attesa nel follow-up di pazienti con IDDVT con una frequenza ed una severità che, pur essendo nettamente inferiori a quelle attesa nei soggetti con TVP prossimale (meno della metà), sono tutt’altro che trascurabili. In particolare, risulta inferiore il rischio di PTS severa (1% vs 4-8% dei soggetti con TVP prossimale). Consentono inoltre di predirne il rischio con l’adozione di uno score basato su alcuni tra i principali parametri anagrafici e fattori di rischio per trombosi. Dato il ruolo che una adeguata terapia antitrombotica della trombosi iniziale gioca anche nella prevenzione delle sequele tardive, ne scaturisce un ulteriore forte supporto alla sua adozione in termini di intensità e durata.

Conclusioni

In conclusione, i risultati degli studi RIDTS e TODI ci restituiscono l’immagine di una problematica vascolare che, se non trattata con modalità sovrapponibili a quelle della TVP prossimale e per una durata non inferiore a tre mesi anche quando non sono presenti fattori di rischio persistenti (quali una neoplasia, che spinge per una anticoagulazione prolungata prescindendo dalla localizzazione della TVP) espone ad un temibile rischio di estensione o recidiva tromboembolica. E’ vero che tali complicanze interessano quasi sistematicamente il circolo sottopopliteo, ma rappresentano la testimonianza più eclatante di una spinta trombogena che, se non adeguatamente controllata, può esitare in complicazioni di maggiore severità, oltre a creare le condizioni per una evoluzione sfavorevole in termini di sequele a lungo termine, ai quali questi soggetti sono esposti con frequenza tutt’altro che trascurabile, come testimoniato dai risultati del registro GARFIELD VTE. In accordo quindi con i risultati di studi precedenti e con le raccomandazioni che ne sono scaturite, tre mesi rappresentano la durata ottimale della terapia anticoagulante in pazienti con IDDVT che non abbiano altre indicazioni per il proseguimento della stessa. Per finire, i risultati del GARFIELD VTE aiutano ad identificare i soggetti con IDDVT maggiormente esposti al rischio di PTS.

 

Bibliografia

  1. Stevens SM, Woller SC, Baumann Kreuziger L, et al. Executive Summary: Antithrombotic Therapy for VTE Disease: Second Update of the CHEST Guideline and Expert Panel Report. Chest 2021;160(6):2247-2259.
  2. Ageno W, Bertù L, Bucherini E, et al. Rivaroxaban treatment for six weeks versus three months in patients with symptomatic isolated distal deep vein thrombosis: randomised controlled trial. BMJ 2022;379:e072623.
  3. Yamashita Y, Morimoto T, Muraoka N, et al. Edoxaban for 12 months versus 3 months in patients with cancer with isolated distal deep vein thrombosis (ONCO DVT Study): An open-label, multicenter, randomized clinical trial. Circulation 2023;148(21):1665-1676.
  4. Turner BRH, Thapar A, Jasionowska S, et al. Systematic review and meta-analysis of the pooled rate of post-thrombotic syndrome after isolated distal deep venous thrombosis. Eur J Vasc Endovasc Surg 2023;65(2):291-297.
  5. Sartori M, Iotti M, Camporese G, et al. Six-week low-molecular-weight heparin versus 12-week warfarin for calf deep vein thrombosis: A randomized, prospective, open-label study. Am J Hematol 2024 Feb 20. doi: 10.1002/ajh.27255. Epub ahead of print. PMID: 38375893.
  6. Prandoni P, Haas S, Fluharty M, et al. Incidence and risk factors of post-thrombotic syndrome in patients with isolated calf vein thrombosis. Findings from the GARFIELD-VTE registry. Thromb Res 2024 ;235:75-78.