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Un nota di grande preoccupazione è stata diramata oggi da un gruppo di ricercatori olandesi. Sulla base del registro nazionale della dispensazione dei farmaci, 1/5 dei pazienti che in un periodo di 4 anni (tra il 2012 ed il 2016) erano stati posti in trattamento con un DOAC (in prevalenza il rivaroxaban) per un episodio di TEV avevano discontinuato il farmaco prima della conclusione di due mesi di terapia1.

Il dato era più frequente tra le donne e tra coloro che non assumevano altre terapie concomitanti. Questa percentuale è in linea con quella riportata per la maggioranza dei farmaci dispensati per indicazioni cardiologiche, ma contrasta pesantemente con quella (inferiore al 10%) disponibile per i dicumarolici sulla base di informazioni fornite dal Centro per il monitoraggio della terapia anticoagulante di Leiden in un periodo di 10 anni.

Che dire? Il dato è sorprendente e preoccupante. Sorprendente perché viene da un Paese (l’Olanda) dove la prescrizione e il monitoraggio delle terapie anticoagulanti fanno parte di un retaggio culturale che si perde lontano nel tempo. Prova ne sia la bassa frequenza con cui viene discontinuata la terapia dicumarolica per la stessa indicazione nel confronto con dati provenienti da altri Paesi. Come a dire, se questo succede in Olanda figuriamoci altrove! Preoccupante perché è stato convincentemente dimostrato che una terapia di durata inferiore a tre mesi non conferisce una protezione adeguata nei confronti del rischio di recidiva e quindi di morte per recidiva2.

Mi preme subito segnalare che, se anche il motivo della sospensione non è noto, e quindi può almeno in parte essere riferito al decesso del paziente o allo sviluppo di complicanze emorragiche, il contrasto con quanto riportato (a parità di condizioni) per i dicumarolici la dice lunga sul fatto che nella stragrande maggioranza dei casi il farmaco è stato discontinuato semplicemente perché il paziente non ha più ravvisato motivi convincenti per proseguirlo e, non ricevendo una sorveglianza paragonabile a quella che viene garantita dal monitoraggio dell’INR, non trova più nessuno che gliene ricorda l’importanza. Analogamente a quanto succede per i farmaci antipiastrinici, solo per rimanere nel campo della terapia antitrombotica. Molti pazienti, soprattutto se non sono stati fortemente motivati, abbandonano le terapie prescritte quando a loro giudizio non ne ravvisano più la necessità. Ne consegue che la prescrizione dei DOAC deve essere accompagnata da qualche forma (se necessario anche “energica”) di raccomandazione o di pressione che renda edotti i pazienti del rischio che corrono se sospendono la terapia prima del periodo assegnato. A poco o nulla servono documenti cartacei, ricordiamocelo bene! Non li leggono.

Questa segnalazione alla quale, ne sono certo, in futuro seguiranno altre analoghe dà ragione a quanti, soprattutto in Italia, ritengono che anche i pazienti assegnati ai DOAC e non solo quelli assegnati alla terapia dicumarolica avrebbero la necessità di una qualche forma di vigilanza, quale è quella garantita dai Centri per il monitoraggio delle terapia antitrombotiche. Non bastano i medici di famiglia, l’esperienza olandese è illuminante in proposito. Chi sperava che i DOAC avrebbero risolto gran parte dei problemi legati alla terapia antitrombotica deve ricredersi. La persistenza alla terapia antitrombotica (e purtroppo anche l’aderenza alla stessa) sono fortemente a rischio nelle mani di pazienti poco motivati o complianti che non ricevano uno stretto e regolare “pressing”. Con il risultato di vedere vanificato in termini di efficacia il miglioramento atteso in termini di sicurezza nei confronti della terapia dicumarolica. La quale, quindi, vede aprirsi uno spiraglio inatteso di impiego anche nell’era dei DOAC. A parte che in pazienti con sindrome da anticorpi antifosfolipidi, severa insufficienza renale o coesistenza di protesi valvolari cardiache, deve essere presa in attenta considerazione anche per pazienti con scarsa compliance se non sono disponibili persone o strutture in grado di vigilarne l’impiego. Fra questi si annidano soprattutto donne e persone che non hanno l’abitudine a prendere farmaci.

Bibliografia

  1. Dronkers CEA, Lijfering WM, Teichert M, van der Meer FJM, Klok FA, Cannegieter SC, Huisman MV. Persistence to direct oral anticoagulants for acute venous thromboembolism. Thromb Res;167:135-41.
  2. Kearon C, Ginsberg JS, Anderson DR, et al; for The Sofast Investigators. Comparison of 1 month with 3 months of anticoagulation for a first episode of venous thromboembolism associated with a transient risk factor. J Thromb Haemost 2004;2:743-9.