In Italia, oltre due milioni e mezzo di persone sono in terapia cronica con anticoagulanti orali. Un numero continuamente in crescita a causa sia dell’invecchiamento della popolazione (con il conseguente incremento di patologie cardiovascolari come la fibrillazione atriale), sia della attuale tendenza, alla luce delle linee guida attualmente disponibili (1), a proseguire la terapia anticoagulante a lungo termine nella grande maggioranza dei pazienti con un primo episodio di tromboembolismo venoso “non provocato”.
Ma qual è l’impatto di queste terapie, se consideriamo che, nonostante l’esteso utilizzo dei “nuovi” anticoagulanti orali diretti (DOAC), il 2-3% delle persone in terapia con anticoagulanti orali presenta un episodio emorragico severo ogni anno?
Lo studio, presentato dai ricercatori dell’Università di Ottawa, ha lo scopo di fornire indicazioni sull’impatto clinico, in termini sia di mortalità che di perdita di autonomia, di questi eventi emorragici. L’analisi ha coperto un decennio (2012-2022) ed è stata condotta su dati di registro (database ospedalieri ed amministrativi riguardanti l’erogazione di farmaci) relativi alla popolazione con più di 65 anni dell’Ontario (Canada).
Sono state individuate 16180 persone in terapia anticoagulante orale (il 40% con warfarin ed il 60% con anticoagulanti orali diretti) ricoverate per un primo episodio di emorragia: nel 62% dei casi si trattava di un evento gastrointestinale, nel 18% intracranico, nel 7% genitourinario e nel 13% in altra sede. Sono state raccolte informazioni fino ad un anno dopo il ricovero. L’età media era 80 anni ed il 65% era in terapia anticoagulante per fibrillazione atriale. Il 12% dei pazienti assumeva anche farmaci antiinfiammatori non steroidei.
La mortalità complessiva è risultata dell’11% durante il ricovero e del 14% nell’arco dei 30 giorni successivi alla dimissione. Come atteso, la mortalità più elevata (38%) è stata riscontrata in chi presentava una emorragia intracranica.
Il 17% dei pazienti ha necessitato di ricovero in terapia intensiva, con un picco del 35% in caso emorragia intracranica. Nel complesso, circa il 50% dei ricoverati ha ricevuto emotrasfusioni, con un picco dell’86% in chi presentava una emorragia gastrointestinale.
Al fine di valutare l’impatto a lungo termine per la qualità di vita e per il sistema sanitario, i ricercatori hanno indagato la percentuale di pazienti che ha perso l’autonomia dopo l’episodio, finendo in una struttura di lungodegenza o in una residenza protetta, risultata del 12% sul totale dei soggetti inclusi nello studio e del 20% quando si andavano ad analizzare i soggetti con emorragia intracranica.
All’analisi multivariata l’età più elevata, il sesso maschile, la provenienza da una casa di riposo, la presenza di tumore e la multimorbidità (>4 patologie) erano tutti fattori associati ad una maggiore rischio di morte intraospedaliera. Tuttavia, a differenza dell’atteso, il tipo di anticoagulante (DOAC vs AVK) non è risultato significativamente associato alla mortalità.
Quest’ultima osservazione conferma quanto emerso dallo studio prospettico osservazionale START2 che ha incluso solo pazienti con emorragia maggior in terapia con DOAC, documentando un 11.9% di mortalità intraospedaliera (15% a sei mesi) e fino al 30% di perdita di autonomia (essendo più elevata la percentuale di pazienti con emorragia intracranica nel gruppo analizzato) (2).
In conclusione, i risultati di questo lavoro (non ancora pubblicato), confermerebbero quelli di ricerche precedenti, aiutando ad inquadrare meglio l’impatto clinico sulla popolazione (in particolare over 65) dell’emorragie che si verificano in corso di terapia anticoagulante orale, fornendo ulteriori elementi di riflessione al medico impegnato nell’attenta analisi dei rischi e benefici di un trattamento a lungo termine.
“Nei pazienti affetti da fibrillazione atriale, nei quali l’anticoagulazione non può essere interrotta, occorre fare ogni sforzo per ridurre il rischio emorragico.” -ha spiegato il prof. Gualtiero Palareti, presidente di Fondazione Arianna Anticoagulazione- “Nei pazienti trattati per un primo evento di tromboembolia venosa bisogna valutare attentamente se proseguire o meno l’anticoagulazione dopo il periodo strettamente necessario. La ricerca scientifica deve muoversi in questa direzione.”- ha concluso.
Fonte: Karsanji D. Siegal D. Delluc A. Early outcomes after hospitalization for anticoagulant related bleeding. Oral presentation Congress ISTH2024 Bangkok.
Bibliografia:
- Testa S, Ageno W, Antonucci E, et al. Management of major bleeding and outcomes in patients treated with direct oral anticoagulants: results from the START-Event registry. Intern Emerg Med. 2018;13(7):1051-1058. doi:10.1007/s11739-018-1877-z
- Stevens SM, Woller SC, Baumann Kreuziger L, Bounameaux H, Doerschug K, Geersing GJ, et al. Antithrombotic Therapy for VTE Disease: Second Update of the CHEST Guideline and Expert Panel Report. 2021 Jul 31:S0012-3692(21)01506-3. doi: 10.1016/j.chest.2021.07.055. Epub ahead of print. PMID: 34352278.
Buonasera io ho avuto un’ embolia polmonare senza alcuna causa scatenante apparente sei anni e mezzo fa! È da tale data che prendo anticoagulanti a dose ridotta e non ho ancora capito se devo continuare, rischiando emorragie di vario tipo, o se finalmente potrei togliermi quest’incubo. Ripeto non ho situazioni predisponenti, tra i due incubi, quello di una nuova embolia sospendendo gli anticoagulanti e quello di una emorragia prendendo gli anticoagulanti quale devo scegliere? Risiedo a Messina da chi potrei essere seguito? Grazie
Gentile Lettore,
come può leggere più estesamente in questo articolo (https://anticoagulazione.it/?p=1723), di risposta ad una domanda molto simile alla sua, in base alle evidenze disponibili ad oggi, l’atteggiamento terapeutico che viene considerato più sicuro, e quindi consigliato dalle principali linee guida internazionali, è quanto effettivamente Lei sta già facendo, in base alle indicazioni dello specialista che la segue per il rinnovo del piano terapeutico.
Infatti, attualmente, in mancanza di criteri precisi che possano identificare con sicurezza chi è a basso rischio di recidiva e quindi può interrompere il trattamento dopo un primo episodio di embolia polmonare non provocata, le indicazioni internazionali vanno verso la prosecuzione ( dopo un primo periodo di trattamento a dose piena) della terapia anticoagulante a “tempo indeterminato”, generalmente con la dose ridotta di DOAC, la cui efficacia e sicurezza è supportata da diversi studi. Ciò significa che il trattamento viene proseguito senza una “data di scadenza” ma con una con rivalutazione periodica (almeno in occasione del rinnovo del piano terapeutico) del rapporto rischio\beneficio.
Infatti, i vantaggi della terapia ed i rischi possono cambiare nel tempo in base al variare delle condizioni cliniche come, banalmente, l’avanzare dell’età che, soprattutto se associato ad altre patologie e ad altri farmaci, può aumentare il rischio emorragico. Pertanto, al fine di ottimizzare ulteriormente la gestione del paziente, la ricerca clinica sta proseguendo nel tentativo sia di identificare chi potrebbe avvantaggiarsi della sospensione della terapia riducendo anche quel residuo rischio emorragico che però, come anticipato, interessa principalmente persone con altri fattori di rischio per emorragia (come l’età molto avanzata, l’insufficienza renale o altre patologie).
In ogni caso per Fondazione Arianna Anticoagulazione è importante portare avanti la ricerca clinica su questa alternativa terapeutica, che al momento vede prevalere la prosecuzione della terapia (con basse dosi) rispetto alla sospensione, in particolare in pazienti che hanno sofferto di embolia polmonare.
Un cordiale saluto
La Redazione