Un recente studio internazionale, pubblicato nel New England Journal of Medicine, ha confrontato edoxaban e placebo per la prevenzione di ictus ed embolia sistemica in pazienti con età > 65 anni con aritmie atriali asintomatiche ad alta frequenza, elettrocardiograficamente indistinguibili dalla fibrillazione atriale, documentate da presidi intracardiaci. Lo studio è stato interrotto precocemente per ragioni di sicurezza, determinate da un eccesso di rischio emorragico del farmaco, non compensato da un vantaggio sul piano della protezione antitrombotica.
L’impianto di presidi intracardiaci (pacemakers, defibrillatori o analoghi) sta portando al crescente riconoscimento di aritmie atriali ad alta frequenza (AHREs) per lo più di breve durata e pressoché costantemente asintomatiche, con caratteristiche elettrocardiografiche virtualmente indistinguibili da quelle della fibrillazione atriale (FA) sintomatica. Occorre applicare a tale rilievo i criteri che ispirano l’instaurazione dell’anticoagulazione nei soggetti con FA sintomatica, vale a dire anticoagulare sistematicamente i soggetti con CHADS2-VASC positivo? A questa domanda rispondono gli autori di un bellissimo trial, condotto in 18 paesi europei, in cui un numero elevato di soggetti rispondenti a queste caratteristiche sono stati randomizzati a ricevere edoxaban o placebo (1).
Brevemente, tra il 2016 ed il 2022, 2536 soggetti di età > 65 anni con positività dello score CHADS2-VASC in cui era stata registrata la presenza di almeno un episodio di AHRE caratterizzato da una frequenza atriale pari ad almeno 170/min ed una durata di almeno 6 minuti sono stati randomizzati a ricevere per tutta la durata dell’osservazione edoxaban (60 mg/die, riducibili a 30 in caso di clearance creatinina < 50 ml/min, peso corporeo < 60 Kg o simultaneità d’impiego di potenti inibitori della glicoproteina P) o placebo. Il placebo prevedeva l’integrazione di 100 mg di aspirina nei casi in cui era necessaria la prevenzione secondaria della malattia cardiovascolare.
All’atto dell’arruolamento le caratteristiche principali dei pazienti erano del tutto confrontabili nei due bracci dello studio in termini di parametri anagrafici, comorbidità, fattori di rischio e terapie associate. L’età media dei pazienti arruolati è stata di 78 anni, il sesso femminile era rappresentato nella misura del 37.4%, la durata mediana degli episodi di AHRE di 2,8 ore, la frequenza atriale in tali circostanze abitualmente > 200/min, il numero mediano di episodi di AHRE 2.8, la mediana dello score CHADS2-VASC 4.
L’endpoint primario di efficacia era un composito di mortalità cardiovascolare, ictus o embolia sistemica; l’endpoint primario di sicurezza un composito di mortalità totale e sviluppo di emorragie maggiori. Endpoints secondari erano le singole componenti degli endpoint principali. Il trial, che avrebbe dovuto raggiungere 220 eventi costitutivi dell’endpoint primario di efficacia, è stato interrotto precocemente dal Comitato di Sorveglianza per ragioni di sicurezza determinate da un eccesso di rischio del farmaco non compensato da un vantaggio sul piano della protezione antitrombotica. All’atto dell’interruzione, il follow-up mediano dei pazienti era di 21 mesi.
L’endpoint primario di efficacia si è verificato in 83 pazienti (pari ad una frequenza annuale del 3,2%) nel gruppo randomizzato all’edoxaban, ed in 101 (pari ad una frequenza annuale del 4%) nel gruppo assegnato al placebo (HR, 0,81; 95% CI, 0,60 – 1,08; P = 0,15). L’incidenza annuale di ictus è risultata approssimativamente pari all’1% in ciascuno dei due bracci dello studio. L’endpoint primario di sicurezza si è verificato in 149 pazienti (pari ad una frequenza annuale del 5,9%) nel gruppo randomizzato all’edoxaban, ed in 114 (pari ad una frequenza annuale del 4,5%) nel gruppo assegnato al placebo (HR, 1,31; 95% CI, 1,02 – 1,67; P = 0,03). Episodi di fibrillazione atriale diagnosticata con registrazione elettrocardiografica sono stati rilevati in 462 dei 2536 pazienti (18,2%, pari ad una frequenza annuale dell’8,7%), e sono risultati similmente distribuiti nei due gruppi di pazienti.
Commento
Nel momento in cui l’opinione cardiologica si stava progressivamente orientando verso l’assimilazione di tali turbe del ritmo atriale alla fibrillazione atriale sintomatica, e si stava assistendo alla crescente instaurazione di presidi antitrombotici per lo meno nei soggetti giudicati a maggior rischio di ictus, i risultati di questo trial rimettono prepotentemente in discussione molti degli attuali orientamenti terapeutici. La fibrillazione atriale asintomatica non sembra comportare un rischio di ictus apprezzabilmente diverso da quello atteso in soggetti non fibrillanti nonostante la presenza di uno o più fattori di rischio catturati dal CHADS2-VASC. Tale rischio appare perfino inferiore a quello riportato in pazienti assegnati ad aspirina nello studio AVERROES (2), a quello riportato nel braccio di controllo dello studio ELDERER-AF in cui bassissime dosi di edoxaban sono state testate nei confronti di placebo in soggetti anziani ad alto rischio emorragico (3), e perfino inferiore a quello riportato tra i pazienti assegnati all’edoxaban nello studio ENGAGE (4).
Il rischio di ictus, già in assoluto basso (frequenza annuale dell’ordine dell’1%), non è poi risultato ridotto dall’impiego dell’edoxaban, che ha di conseguenza comportato solo un aumento del rischio di emorragia, in modo paragonabile a quanto osservato con lo stesso farmaco negli studi ENGAGE ed ELDERER-AF (3,4), oltre che nella pratica clinica (5). La sensazione netta che se ne ricava è che la brevità degli episodi aritmici, congiunta con l’assenza di una fenomenologia sintomatica, in realtà rappresenti uno stimolo trombogeno così modesto da rendere superflua e pericolosa l’adozione di terapia anticoagulante.
Tale rilievo a mio parere non è così sorprendente. Negli ultimi anni si è fatta crescente la consapevolezza che perfino episodi parossistici di aritmia fibrillatoria, se di breve durata, non comportano un rischio paragonabile a quelli di soggetti con fibrillazione atriale persistente o permanente (6), e che il precoce controllo del ritmo, comunque raggiunto (soprattutto con tecniche ablative) crea le condizioni per una netta riduzione del rischio successivo di ictus anche in assenza di terapia anticoagulante (7). Ovviamente è presto per trarre conclusioni definitive, ma rimane l’impressione che sia in atto una attenta rivalutazione del rischio trombogeno (e della conseguente necessità di terapia anticoagulante) della fibrillazione atriale, per lo meno nei casi in cui l’aritmia è asintomatica, di breve durata o comunque estinguibile, anche nei soggetti a più alto rischio di ictus sulla base degli indici di stratificazione dello stesso. Indubbiamente concorre a queste valutazioni la sensazione sempre più diffusa che il rischio emorragico legato all’impiego dei DOAC, seppur inferiore a quello atteso con l’impiego della warfarina, sia tutt’altro che irrilevante, e cresca proprio negli individui giudicati (a torto od a ragione) a maggior rischio di ictus.
Bibliografia
- Kirchhof P, Toennis T, Goette A, et al. Anticoagulation with edoxaban in patients with atrial high-rate episodes. N Engl J Med 2023 Aug 25. doi: 10.1056/NEJMoa2303062. Epub ahead of print. PMID: 37622677.
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