Il paziente affetto da COVID-19 presenta una serie di alterazioni dell’emostasi rilevabili con il laboratorio, che sono conseguenti alla tempesta citochinica a cui è sottoposto durante la malattia. Le alterazioni sono presenti in tutte le fasi della malattia e hanno carattere ingravescente.
Si riscontrano valori modestamente alterati nella fase della risposta virale, per arrivare a valori drammaticamente alterati nella fase infiammatoria1.
Livelli elevati di D-dimero sono il dato più saliente della malattia e, sebbene siano stati associati alla progressione della malattia a ARDS (acute respiratory distress syndrome, sindrome da distress respiratorio acuto) e morte2, non trovano ancora un posto importante nelle decisioni terapeutiche che da essi taluni farebbero derivare.
Il PT è di solito leggermente o modestamente prolungato, ma l’APTT resta spesso normale e in taluni casi addirittura accorciato.
Livelli alti di fibrinogeno e fattore VIII sono caratteristiche salienti del COVID-19 e sembrano aumentare di livello con il progredire della malattia.
La piastrinopenia è raramente associata a COVID-19, anzi in molti casi la conta piastrinica tende ad essere elevata.
Gli anticoagulanti naturali antitrombina e proteina S sono mediamente normali o leggermente ridotti, mentre la proteina C tende ad essere aumentata soprattutto negli stadi avanzati della malattia.
Tutte le alterazioni di cui sopra, con la sola eccezione del D-dimero, non portano a concludere che il paziente COVID-19 sia in uno stato di coagulazione intravascolare disseminata con coagulopatia da consumo, come era stato precedentemente descritto dagli autori cinesi nei primissimi tempi della pandemia. I dati di laboratorio sono piuttosto concordi nel definire questi pazienti con uno stato di ipercoagulabilità plasmatica, piuttosto marcato, soprattutto nella fase avanzata della malattia.
Il fattore di von Willebrand (antigene e cofattore della ristocetina) è fortemente aumentato, raggiungendo livelli di oltre 500% nella fase avanzata della malattia. Questi aumenti denunciano una grave perturbazione endoteliale che, unita allo stato di ipercoagulabilità, rendono plausibili i fenomeni trombotici osservati in questi pazienti.
Lo stato procoagulante di questi pazienti è anche dimostrato dai rilievi effettuati con tromboelastografia su sangue intero, che dimostrano uno stato generalizzato di ipercoagulabilità3 e che sembra regredire in quei pazienti che superano la fase acuta della malattia4.
In conclusione, il paziente con COVID-19 presenta uno stato generalizzato di ipercoagulabilità rilevabile con i test di laboratorio, unito a una profonda perturbazione endoteliale che, assieme allo stato infiammatorio, spiegherebbero gli eventi tromboembolici, che spesso si osservano in questi pazienti e che giustificherebbero una profilassi antitrombotica, almeno nel paziente ospedalizzato. Molto dibattuta è la decisione sul livello di profilassi da attuare, per la quale non ci sono ancora studi randomizzati. Se e come il laboratorio possa essere utile nella decisione sul livello di profilassi da adottare non è ancora noto e richiede ulteriori studi.
Bibliografia
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