Uno studio della Fondazione Arianna a partire dai dati del registro START fa il punto sulla questione. Per gli esperti il problema è legato allo scarso controllo periodico dei pazienti trattati con gli anticoagulanti orali diretti in caso di terapie prolungate, peraltro non sempre necessarie.

È recentemente uscito su BMJ Open uno studio a cura di Fondazione Arianna che approfondisce il sanguinamento e le complicanze trombotiche durante la terapia anticoagulante con i DOAC (anticoagulanti orali diretti) e con gli AVK (antagonisti della vitamina K, come il Coumadin) in pazienti con tromboembolia venosa (TEV)1.
I dati per l’analisi provengono dal registro START, un database della stessa Fondazione Arianna con le informazioni dei pazienti nella vita reale, quindi particolarmente prezioso. Gualtiero Palareti, presidente di Fondazione Arianna e tra gli autori del lavoro, ne spiega i punti di interesse.
La terapia anticoagulante ha due indicazioni principali: la fibrillazione atriale e appunto il TEV, che comprende la trombosi venosa profonda e l’embolia polmonare. Nel primo caso la terapia deve essere fatta a vita, mentre nel TEV serve una valutazione da parte dello specialista”.

Le linee guida internazionali suggeriscono gli anticoagulanti per un periodo minimo di 3-6 mesi nei pazienti con TEV, dopodiché si può interrompere oppure prolungare la terapia in base al rischio di recidiva secondo le caratteristiche personali del paziente. “È fondamentale che questa valutazione sia effettuata da un esperto che spieghi al paziente le motivazioni della sua scelta – afferma Palareti – Inoltre, il paziente dovrebbe sottoporsi a una visita di controllo almeno due volte l’anno, meglio una volta ogni quattro mesi”.

Nello studio sono stati seguiti circa 2700 pazienti con TEV tra il 2014 e il 2018, la maggior parte dei quali trattati con i DOAC: “Abbiamo osservato che una parte di questi ha interrotto la terapia dopo i 6 mesi, mentre un’altra fetta ha proseguito più a lungo – spiega Palareti –. Abbiamo quindi analizzato cosa è successo in questi pazienti”.
Dal punto di vista emorragico, non sono state registrate differenze significative tra chi ha ricevuto i DOAC e chi gli AVK. “Le differenze sono emerse per gli eventi trombotici, cioè per le recidive di tromboembolia: chi ha seguito la terapia con gli anticoagulanti orali diretti ha mostrato un numero significativamente maggiore di recidive o complicanze tromboemboliche rispetto a chi ha ricevuto gli AVK. Queste complicanze si sono manifestate maggiormente dopo i sei mesi di terapia”.
Gli autori dello studio hanno ipotizzato che questa differenza sia legata alla mancanza di un controllo adeguato nel lungo periodo per i pazienti in DOAC: “Queste persone non sono osservate costantemente come avviene per quelle in AVK, che devono recarsi periodicamente a controllare l’INR – ragiona Palareti –. Una terapia anticoagulante, di qualunque tipo, necessita di un controllo periodico, che rinfreschi al paziente la necessità di essere aderente alla terapia, senza ridurre la dose, e che permetta allo specialista di monitorare eventuali complicanze o cambiamenti”.

Per l’esperto i problemi oggi sul tavolo sono due: “Da una parte occorre verificare chi ha davvero necessità di una terapia prolungata. Altrimenti si espone a rischio emorragico persone che non ne hanno bisogno. In secondo luogo, i pazienti vanno seguiti e monitorati nel tempo da uno specialista e non solo attraverso esami di routine”.


Bibliografia

Palareti G, Antonucci E, Legnani C on behalf of the START2 Register Investigators, et al. Bleeding and thrombotic complications during treatment with direct oral anticoagulants or vitamin K antagonists in venous thromboembolic patients included in the prospective, observational START2-register. BMJ Open 2020;10:e040449. doi: 10.1136/bmjopen-2020-040449