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Ogni anno, nel mondo, circa 10 milioni di persone vanno incontro a un episodio di tromboembolismo venoso (TEV), come la trombosi venosa profonda o l’embolia polmonare. In Italia si registrano circa 65.000 nuove diagnosi all’anno. La pandemia di COVID-19, patologia che può essere associata ad alterazioni della coagulazione del sangue, purtroppo ha accentuato le dimensioni del problema. Si calcola che una persona su quattro perde la vita per le conseguenze di una trombosi arteriosa o venosa. Tuttavia, un precoce riconoscimento dei segni e dei sintomi può portarci a “sventare” la maggior parte dei casi potenzialmente fatali e a ridurre enormemente le complicanze anche di quelli meno gravi.

Ma come riconoscere che un coagulo si è formato nel nostro sistema venoso e chiedere prontamente assistenza medica? A volte i segnali di “allarme” possono essere “sfumati” e portarci a temporeggiare. È bene allora ricordare che, nonostante la trombosi venosa profonda possa interessare qualsiasi distretto del nostro corpo, in gran parte dei casi avviene a carico delle vene profonde della gamba dando luogo a gonfiore, dolore (accentuato dalla palpazione) e, in alcuni casi, anche ad arrossamento e calore a carico dell’arto interessato. Quando un coagulo si frammenta può, attraverso il circolo venoso, finire nelle arterie polmonari ostacolandone il flusso e impedendo che il sangue arrivi al polmone, una condizione potenzialmente fatale nota come embolia polmonare. In questo caso i sintomi di “allarme” saranno dolore toracico, tachicardia, affanno respiratorio e, in alcuni casi, anche sensazione di svenimento o sincope vera e propria.

La buona notizia è che, oltre ad essere efficacemente trattabili con un’adeguata terapia anticoagulante se prontamente riconosciute, queste condizioni possono essere prevenute conoscendo i fattori di rischio che contribuiscono a scatenarle. In particolare, lunghi periodi di immobilizzazione come può avvenire in caso di ospedalizzazioni protratte ed interventi chirurgici (soprattutto di anca, ginocchio o dovuti alla presenza di tumori) possono essere responsabili di una quota evitabile (fino al 60 % secondo statistiche statunitensi) di episodi di tromboembolismo venoso.

In Italia, fortunatamente, la maggior parte degli ospedali ha rigidi protocolli per la prevenzione di queste patologie che hanno portato a ridurne in maniera molto significativa l’incidenza, ma è sempre importante stare attenti ai sintomi perché nessun protocollo può darci la certezza assoluta di non andare incontro al problema. Inoltre, purtroppo, la presenza di tumore (in particolare a carico di pancreas, stomaco, polmone, reni, ovaio o il linfoma) ed anche le terapie oncologiche, pur salvavita, che vengono effettuate, possono aumentare fino a sei volte il rischio di sviluppare coaguli nel sistema venoso ed è pertanto importante, per chi è affetto da queste patologie, parlare con il proprio medico su come mettere in atto la prevenzione. Anche le terapie contenti estrogeni (pillola anticoncezionale o terapia sostitutiva per la menopausa) e, in minor misura, condizioni come la gravidanza e il puerperio (le 6 settimane dopo il parto) o l’obesità, possono costituire un fattore di rischio da non sotto valutare per chi vuole tenere “gli occhi aperti sulla trombosi”.