La malattia tromboembolica venosa può essere idiopatica (senza causa apparente) o secondaria a situazioni a rischio (interventi chirurgici, fratture, gravidanza, immobilizzazione prolungata).
In genere, le trombosi idiopatiche vengono riferite alla presenza di fattori di rischio “persistenti” (ereditari od acquisiti), mentre le trombosi secondarie riconoscono fattori di rischio “temporanei”.
Tra i fattori di rischio persistenti, si annoverano le trombofilie ereditarie, e quelle acquisite. Le prime sono dovute a difetti quantitativi o qualitativi di proteine anticoagulanti (antitrombina III, proteina S, proteina C, fattore V della coagulazione, protrombina). Le seconde sono dovute alla presenza di anticorpi antifosfolipidi ed anticoagulante lupico (LLAC) o a malattie infiammatorie croniche.
Le trombosi idiopatiche comportano un rischio di recidiva più elevato rispetto alle trombosi secondarie. Da ciò conseguono raccomandazioni diverse per la durata del trattamento, in genere di tre-sei mesi per le trombosi secondarie, a tempo indeterminato per le trombosi idiopatiche. A volte, naturalmente, fattori di rischio temporanei e persistenti possono coesistere nello stesso individuo, causando incertezze per quanto riguarda la attribuzione della terapia.
Viene qui descritta la esperienza di trattamento di episodi di trombosi venosa profonda degli arti inferiori in due fratelli, atleti plurimedagliati, appartenenti alla stessa famiglia nella quale è presente una ereditarietà per il deficit della proteina C della coagulazione. Nel novembre 1988, A.A., 20 anni, oro olimpico nel canottaggio nell’agosto dello stesso anno, iniziò a soffrire di edema all’arto inferiore sinistro. Riferiva in anamnesi un trauma al polpaccio nel corso di una partita di calcetto, in allenamento. Venne trattato per stiramento muscolare per qualche giorno, quindi sottoposto ad esame ecodoppler che evidenziò una trombosi venosa profonda distale. L’atleta venne sottoposto a trattamento con dosi basse di eparina calcica (5.000 U.I./b.i.d.) in alternanza con prodotti non specifici. Nell’aprile 1989, l’atleta si sottopose a nuovi accertamenti, che evidenziarono l’estensione del processo trombotico alle vene prossimali della coscia. L’atteggiamento terapeutico non mutò, mantenendosi inadeguato (eparina calcica s.c., 12.500 U.I. x 2 vv. al dì).
L’atleta giunse alla nostra osservazione nell’agosto 1989 mostrando edema esteso a tutto l’arto inferiore sinistro. Un esame ecodoppler evidenziò trombosi venosa profonda prossimale dell’arto inferiore sinistro (ilio-femoro-poplitea), in esiti, con aspetti di recente apposizione di fibrina. L’atleta venne ricoverato per trattamento con dosi piene di eparina non frazionata (1.250 U.I./ora per infusione continua), con sovrapposizione di warfarina. Prima di iniziare la terapia, venne sottoposto a prelievi ematici per la ricerca di eventuale stato trombofilico. L’esame mostrò la presenza di difetto di proteina C (attività <70%). Lo stesso deficit venne riscontrato nella madre ed in una sorella. L’atleta restò ricoverato per circa una settimana, quindi venne dimesso con la prescrizione di mantenere la terapia anticoagulante orale a tempo indeterminato, per la presenza di fattore di rischio persistente. A causa del rischio emorragico legato alla terapia anticoagulante cui doveva sottoporsi, l’atleta venne giudicato non idoneo alla prosecuzione della attività sportiva nella rappresentativa nazionale.
L’atleta venne sottoposto a terapia anticoagulante orale ed a frequenti controlli per cinque anni e cinque mesi. Nel gennaio 1995, sulla base dei risultati di esperienze comparse in letteratura, si ritenne possibile sospendere il trattamento anticoagulante, sostituendolo con la sorveglianza strumentale periodica (ecografia per compressione, pletismografia ad impedenza). In queste condizioni, l’atleta venne riammesso nella squadra nazionale e giudicato idoneo alla partecipazione olimpica, per la quale si qualificò vincendo i campionati mondiali del 1995.
A nove mesi dalla sospensione della terapia anticoagulante e a dieci dalle Olimpiadi, l’atleta ebbe sintomi suggestivi di recidiva trombosi venosa profonda. Il controllo strumentale seriato permise di evidenziare la ripresa del fenomeno trombotico a carico del polpaccio sinistro. Una flebografia consentì di confermare la presenza di nuova trombosi venosa profonda distale e prossimale dell’arto inferiore sinistro. L’atleta venne sottoposto a terapia come da protocollo già utilizzato in occasione del primo episodio. Ottenuta la remissione dei sintomi, l’atleta venne posto in terapia anticoagulante orale con warfarina, questa volta a tempo indeterminato.
Sulla base della esperienza scientifica maturata nel frattempo, considerando il rischio di recidiva in assenza di protezione superiore al rischio emorragico da terapia anticoagulante, l’atleta venne giudicato questa volta idoneo alla partecipazione olimpica. Nell’estate 1996 l’atleta vinse l’oro olimpico ad Atlanta (U.S.A.). Quattro anni dopo, mentre si trovava sempre in terapia anticoagulante con warfarin vinse l’oro olimpico a Sidney (Australia). Nel corso della vicenda descritta, G.A., fratello maggiore del propositus, anch’egli atleta olimpico plurivittorioso, si fratturò il V° metatarso del piede destro. L’arto venne immobilizzato e dopo qualche tempo l’atleta sviluppò edema localizzato. Comparve anche dolore toracico localizzato. Per qualche settimana l’atleta venne trattato con antiinfiammatori. L’atleta giunse quindi alla nostra osservazione e venne sottoposto ad esame flebografico, che evidenziò una trombosi venosa profonda femoro-poplitea destra. Una scintigrafia perfusoria e ventilatoria evidenziò una embolia polmonare interessante il lobo inferiore destro e la zona parailare sinistra.
All’epoca della trombosi di A.A., la famiglia venne sottoposta a tutti gli accertamenti in senso trombofilico. G.A. risultò negativo a tutti i tests effettuati. L’atleta venne sottoposto a trattamento anticoagulante con eparina per infusione continua, 1.250 U.I./ora per qualche giorno, quindi trattato con warfarina per non più di sei mesi. Dal momento della sospensione della terapia sono passati più di vent’anni. Il paziente è in buona salute e non ha mai più sofferto di episodi tromboembolici.
Gli episodi riportati sottolineano:
- l’importanza dei fattori di rischio persistenti nel determinare il rischio di recidiva e la durata ottimale della terapia anticoagulante,
- la conferma che l’attività sportiva che non comporti traumatismo finalizzato (sport di contatto) o accidentale (sport di velocità e contrasto) non aggrava il rischio emorragico calcolato per la terapia anticoagulante,
- che la malattia tromboembolica trattata adeguatamente non determina riduzione della prestanza fisica.