Una recente revisione ha fatto il punto sulla situazione, concentrandosi in particolare sull’eparina non frazionata utilizzata in ambienti intensivistici.

La resistenza a un farmaco viene definita usualmente come la mancanza di una risposta terapeutica attesa per una dose standard del farmaco. Nel caso dell’eparina, da molto tempo si discute dell’esistenza di forme di “resistenza”, che tuttavia sono sempre rimaste poco comprese e ancora meno standardizzate. La resistenza, in questo caso, è stata definita come il mancato raggiungimento di un certo livello di anticoagulazione nonostante l’utilizzo di una dose di eparina considerata adeguata e si riferisce principalmente all’eparina non frazionata utilizzata in ambienti intensivistici.

L’importanza dell’argomento e, al contempo, la sua scarsa standardizzazione, unitamente all’elevata attenzione alle manifestazioni trombotiche legate a COVID-19 nei pazienti ricoverati in terapia intensiva, sono state oggetto di una trattazione pubblicata molto recentemente sulle pagine del New England Journal of Medicine.

L’eparina non frazionata è spesso la molecola di scelta nei pazienti ricoverati in terapia intensiva, poiché rende possibile un controllo attento dell’anticoagulazione grazie alla sua breve emivita, alla possibilità di un monitoraggio laboratoristico facilmente disponibile e alla disponibilità di un antidoto.
In questo contesto clinico, la resistenza all’eparina è stata variamente definita, ad esempio come la necessità di oltre 35.000 U al giorno per ottenere un’anticoagulazione adeguata (senza però specificarne il livello) oppure come l’utilizzo di oltre 500 U per Kg di peso corporeo al fine di ottenere un tempo di coagulazione attivata tra 400 e 480 secondi. Naturalmente, l’identificazione di una resistenza dipende dal test laboratoristico adottato, dal livello target di anticoagulazione scelto e dalla definizione stessa di resistenza.

test principali sono costituiti dal tempo di tromboplastina parziale attivata (aPTT) e dal tempo di coagulazione attivata (ACT). L’aPTT può variare significativamente in presenza di concentrazioni elevate di proteine procoagulanti, come avviene per il fattore VIII ed il fibrinogeno in corso di malattie infiammatorie acute, pur non riflettendo variazioni importanti della concentrazione di eparina. Pertanto, un accorciamento dell’aPTT in presenza di elevati livelli di fattore VIII non corrisponde necessariamente ad una perdita di effetto anticoagulante dell’eparina.

D’altra parte, l’ACT (che viene spesso utilizzato anche come point-of-care durante il bypass cardiopolmonare o altre procedure interventistiche cardiopolmonari poiché ha una risposta lineare alle alte dosi eparina somministrate durante questi interventi) può risultare prolungato indipendentemente dal livello di eparina, a causa di fattori come l’ipotermia, l’emodiluizione o deficit congeniti o acquisiti di fattori coagulativi.
Al di là di una possibile scarsa accuratezza dei test di laboratorio nelle circostanze sopradescritte, esistono meccanismi biologici plausibili alla base di una resistenza all’eparina, tra cui il legame non-specifico dell’eparina (che è fortemente caricata negativamente) ad una serie di proteine (lipoproteine, fattore VIII, fibrinogeno, fattore von Willebrand), superfici cellulari (endoteliali, monociti) e superfici non cellulari (circuiti extracorporei).

Un altro meccanismo frequentemente chiamato in causa nella resistenza all’eparina è la carenza di antitrombina, che si verifica in condizioni patologiche come la sepsi, patologie epatiche, coagulazione intravascolare disseminata (DIC), uso di circuiti extracorporei. Non vi sono tuttavia evidenze scientifiche circa il livello minimo di antitrombina necessario per avere un effetto terapeutico durante la terapia eparinica e le raccomandazioni riguardanti la supplementazione di antitrombina sono basate solo sul consenso di esperti. In particolare, durante le procedure di bypass cardiopolmonare, la somministrazione di antitrombina è risultata efficace in diversi trial clinici nel ripristinare la responsività all’eparina e anche migliorare i risultati dei test coagulativi permettendo una riduzione delle dosi di eparina. Al di fuori di questo contesto, tuttavia, non ci sono dati che confermino un beneficio clinico fornito dalla supplementazione di antitrombina.

Come già accennato, un’altra condizione di possibile resistenza all’eparina è rappresentata da molti stati infiammatori severi, tra cui anche COVID-19 e influenza H1N1, che sono associati a un rischio trombotico elevato, a sua volta mediato da molti elementi, tra cui livelli elevati di fattore VIII, fattore von Willebrand, fibrinogeno e anticorpi antifosfolipidi in presenza di danno endoteliale. Alcuni di questi fattori possono anche provocare un accorciamento dell’aPTT, inducendo così una richiesta di dosi più elevate di eparina per ottenere l’aPTT target e suggerendo quindi una resistenza all’eparina.

Recentemente, infine, è stato descritto come anche l’utilizzo di andexanet alfa, somministrato per revertire l’effetto di rivaroxaban o apixaban prima di un intervento cardiochirurgico, abbia condotto alla necessità di dosi di eparina elevate per ottenere livelli di anticoagulazione adeguati durante l’intervento.

Per concludere, la resistenza all’eparina è spesso evocata quando non c’è un incremento adeguato dell’aPTT in risposta ad una certa dose di eparina. In questi casi, occorre considerare potenziali fattori interferenti con i test funzionali come l’aPTT o l’ACT e, in questi casi, utilizzare anche test cromogenici per determinare l’attività anti-Xa, in modo da avere informazioni più accurate sulla risposta clinica all’eparina. Infine, è importate ricordare che in corso di stati infiammatori acuti, oltre alla potenziale scarsa accuratezza dell’aPTT, esiste anche la possibilità che molte molecole di fase acuta possano effettivamente legare l’eparina e neutralizzarne in parte l’effetto.


Bibliografia

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