È un evento che capita di frequente, soprattutto dopo gli 80 anni. Fondamentale la chirurgia precoce che però nei pazienti anticoagulati spesso è ritardata.
La frattura del collo femorale rappresenta un’evenienza molto frequente nel paziente anziano e che spesso ne mette a rischio il difficile equilibrio psico-fisico. Infatti, tale evento si associa non solo a una riduzione delle attività relazionali e dei margini di autonomia, ma anche a un significativo deterioramento fisico dato dallo stato di allettamento, dall’anemizzazione conseguente al trauma, con aumentato rischio di scompenso cardiaco, insufficienza renale, infezione, tromboembolismo.
Si stima che circa 1 donna ogni 40 sopra gli 80 anni abbia una frattura d’anca ogni anno; il rischio di frattura nei maschi è di circa la metà. È noto come un precoce intervento di chirurgia riparativa migliori l’outcome di tali pazienti, e varie linee guida raccomandano che la chirurgia riparativa sia eseguita entro le prime 48 ore. Una recente meta analisi ha evidenziato come la chirurgia precoce sia associata ad una riduzione globale di mortalità del 20% 1.
Una chirurgia precoce è però spesso resa difficile dalla presenza di terapia anticoagulante nel paziente. Poiché circa il 15% dei pazienti sopra gli 80 anni assume una terapia anticoagulante 2, un intervento di chirurgia riparativa ogni sei dovrà tener conto di questo. Nei pazienti in terapia anticoagulante, il tempo trascorso in attesa della chirurgia è maggiore rispetto ai pazienti non anticoagulati, con un conseguente rischio di aumentata mortalità in questi ultimi, di per sé più fragili. C’è inoltre la concreta possibilità che non sia presente una sufficiente cultura per gestire le terapie anticoagulanti con i nuovi anticoagulanti diretti orali (DOAC o NAO) da parte di anestesisti e chirurghi. Mentre infatti la procedura di reversal dei warfarinici era piuttosto standardizzata, e l’uso della vitamina K orale o endovenosa globale una pratica comune, il comportamento da seguire con i DOAC è meno conosciuto. Diverse recenti pubblicazioni hanno posto all’attenzione dei clinici il problema delle nuove terapie anticoagulanti nei pazienti con frattura d’anca.
Uno studio osservazionale monocentrico ha valutato gli outcome dei pazienti con frattura d’anca in terapia con DOAC nei confronti dei pazienti senza alcuna terapia anticoagulante. I due gruppi erano composti da persone nella stessa fascia d’età e con uguale tipo di anestesia e di chirurgia, oltre che giorno della settimana di ingresso 3. Anche se la casistica era piuttosto limitata, lo studio mostra che i pazienti in DOAC vengono in media operati dopo 43 ore dall’ingresso mentre i pazienti senza terapia venivano operati in media dopo 15 ore. I pazienti in DOAC ricevevano un maggior numero di trasfusioni e presentavano una maggiore mortalità a tre mesi; quest’ultimo dato potrebbe essere peraltro influenzato dalla presenza di un maggior numero di comorbidità all’ingresso rispetto al gruppo di controllo.
Un secondo recente studio osservazionale ha valutato un gruppo di 270 pazienti anziani (>65 anni) in trattamento anticoagulante e sottoposti a chirurgia d’anca 4. 186 pazienti sono stati sottoposti a reversal della terapia (di questi, il 73% era in warfarin), mentre 84 non lo sono stati (di questi, il 52% era in warfarin). Il reversal della terapia è stato effettuato con varie strategie, includendo l’uso di vitamina K, idarucizumab, complesso protrombinico o semplicemente l’attesa.
Ancora una volta, i pazienti sottoposti a reversal di terapia venivano sottoposti a chirurgia in media 48 ore dopo l’ultima dose di farmaco contro le 22 di coloro che non venivano sottoposti a reversal. Il principale end-point dello studio era la stima delle perdite ematiche, che risultava simile in ambedue i gruppi; i due gruppi erano simili anche in termini di durata dell’ospedalizzazione o mortalità. Questi risultati suggeriscono che attendere il reversal nei pazienti anziani potrebbe non essere giustificato.
L’influenza delle terapie anticoagulanti nello sviluppo di complicanze emorragiche e trombotiche nei pazienti con frattura d’anca è stata valutata anche attraverso una metanalisi 5. Questo studio ha preso in considerazione 21 studi pubblicati, coinvolgenti in totale 21.417 pazienti. I pazienti in terapia anticoagulante avevano maggiori perdite ematiche operatorie e una conseguente maggiore probabilità di ricevere trasfusioni. Non era invece dimostrabile un maggior rischio tromboembolico nei pazienti in terapia anticoagulante. Uno dei risultati principali di questa metanalisi era però che queste differenze non erano in apparenza influenzate dalle ore trascorse dalla sospensione della terapia anticoagulante stessa. In altre parole, nei pazienti con un periodo di sospensione della terapia anticoagulante più breve non era presente un maggiore rischio emorragico o tromboembolico. Gli Autori mettono in risalto come l’aumento assoluto di perdite ematiche nei pazienti anticoagulati sia modesto (50 mL), e come l’uso di antifibrinolitici potrebbe risultare in un controllo dell’emorragia.
In conclusione, questi studi mostrano come sia necessaria una precisa valutazione del rischio del paziente, in particolare bilanciando i benefici di una chirurgia precoce con il rischio di un aumento del rischio emorragico. Anche la misura dei livelli di anticoagulante effettivamente presenti al momento dell’ingresso in ospedale potrebbe avere un ruolo. In attesa di studi ad hoc, un cauto approccio multidisciplinare e la stesura di protocolli interni condivisi è fortemente raccomandabile6.
Bibliografia
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