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I farmaci antiaggreganti sono un caposaldo della terapia di prevenzione primaria e secondaria degli eventi cerebro- e cardiovascolari: inibendo l’attività piastrinica, essi prevengono i meccanismi di progressione della malattia aterosclerotica e riducono l’incidenza di fenomeni trombotici (infarto miocardico, ictus ischemico e trombosi vascolare periferica).

Purtroppo, ciò non può prescindere da un certo rischio emorragico, in particolare a livello gastrico, che risulta aumentato in alcune situazioni. Il riconoscimento di queste condizioni da parte del medico può consentire di prevenire i potenziali eventi avversi con farmaci gastroprotettori sicuri ed efficaci.

Pur essendo farmaci di comprovata efficacia, lo stesso meccanismo d’azione degli antiaggreganti (si veda il box per il dettaglio) ne giustifica uno dei più comuni e temuti effetti avversi: l’aumentato rischio di sanguinamenti. Non a caso, è ormai condiviso che il presupposto per un corretto impiego di questi presidi terapeutici non sia tanto quello di prescriverli indiscriminatamente (“Un’aspirina non ha mai fatto male a nessuno”), ma quello di bilanciare attentamente il rischio ischemico e il rischio emorragico del paziente, al fine di definire appropriatezza della prescrizione, modalità di combinazione delle diverse classi di antiaggreganti, durata della terapia e strategie di prevenzione delle complicanze emorragiche.

Antiaggreganti e sanguinamenti gastrointestinali: un legame complicato

I sanguinamenti del tratto gastrointestinale sono tra i più comuni eventi avversi della terapia antiaggregante nella pratica clinica. I meccanismi alla base di tale fenomeno sono molteplici: non solo l’inibizione piastrinica compromette i normali processi emostatici, ma interferisce anche con i meccanismi di riparazione tissutale. Le piastrine, infatti, non sono dei semplici mattoni che vanno a tappare i siti di sanguinamento, ma rilasciano una serie di fattori tissutali che favoriscono i meccanismi di cicatrizzazione e ri-epitelizzazione della mucosa gastro-enterica. È stato inoltre osservato che l’acido acetilsalicilico (ASA) esprime un potenziale lesivo diretto delle mucose, in quanto per le sue caratteristiche chimiche sarebbe in grado di danneggiare il rivestimento protettivo delle cellule gastriche, di esercitare un’azione citotossica diretta e, inibendo il metabolismo delle prostaglandine, ostacolerebbe i fenomeni locali di rivascolarizzazione dei tessuti danneggiati. Una buona parte di questi meccanismi di danno è solo parzialmente compresa: per esempio, non è del tutto sicuro che i bassi dosaggi normalmente utilizzati per l’azione antiaggregante dell’acido acetilsalicilico possano causare un’interferenza con la sintesi delle prostaglandine a livello sistemico e, allo stesso tempo, le moderne formulazioni gastroprotette – ovvero programmate per non rilasciare il contenuto di acido acetilsalicilico nello stomaco – non hanno abolito del tutto i sanguinamenti.

Qualche dato dalla letteratura

Analizzando la letteratura scientifica, il messaggio che emerge è abbastanza semplice. Numerosi dati permettono di affermare che la terapia cronica con acido acetilsalicilico aumenta il rischio emorragico gastrointestinale fino a quasi 2 volte rispetto ai pazienti che non ne fanno uso. È inoltre dimostrato che la combinazione di due farmaci antiaggreganti aumenta ulteriormente il rischio rispetto a uno solo: per esempio, la combinazione di acido acetilsalicilico e clopidogrel causa un incremento del rischio fino a più di 7 volte rispetto al solo acido acetilsalicilico. Le informazioni a nostra disposizione per i farmaci di più recente generazione sono meno puntuali: vale tuttavia la pena ricordare che il tratto caratterizzante di prasugrel e ticagrelor è la loro capacità di garantire un effetto antiaggregante più potente e più prevedibile, cosa che si traduce, ragionevolmente, in un aumentato rischio di sanguinamento gastrico rispetto a clopidogrel.
Tali dati, lungi dal sollevare dubbi sul vantaggio terapeutico delle nuove molecole, sottolineano piuttosto il concetto che effetto antiaggregante e rischio di emorragie sono due facce della medesima medaglia, e rappresentato entrambi target terapeutici altrettanto importanti.

Antiaggreganti e loro meccanismo di azione

Le classi di antiaggreganti orali di più comune impiego sono due:

– inibitori delle ciclo-ossigenasi (COX): acido acetilsalicilico (ASA), che interferisce con il metabolismo delle prostaglandine, inibendo la sintesi di trombossano A2 (TXA2), uno dei principali responsabili dell’attivazione piastrinica;

– antagonisti recettoriali dell’adenosin-difosfato (ADP): clopidogrel, ticagrelor e prasugrel, che impediscono una via di attivazione piastrinica complementare a quella del TXA2, mediante il legame reversibile o irreversibile con il recettore piastrinico P2Y12.

I due meccanismi sono tra loro cumulabili, come avviene nel periodo successivo a un infarto miocardico o al posizionamento di uno stent coronarico: non a caso in tali circostanze sarà richiesto al paziente di assumere una “doppia terapia antiaggregante” per una durata di tempo variabile, a valle della quale viene ripristinata a tempo indeterminato la “singola” terapia antiaggregante, perlopiù con ASA.Content goes here

 

Il ruolo degli inibitori di pompa protonica

La soppressione della secrezione acida gastrica mediante inibitori di pompa protonica (PPI) ha dimostrato di essere efficace nella prevenzione dei sanguinamenti gastrointestinali nei pazienti ad alto rischio in terapia con acido acetilsalicilico: in un trial randomizzato, l’uso di lansoprazolo ha ridotto l’incidenza di eventi a un anno al 1.6% vs 14.8% con placebo. In tal senso, la gastroprotezione con PPI a dosaggio standard nei pazienti candidati a terapia di lungo termine con ASA può essere raccomandata in presenza di fattori di rischio (per esempio: precedente ulcera peptica, pregressa infezione da Helicobacter pylori, pregresso sanguinamento o età avanzata).
In passato sono stati sollevati dubbi in merito a una possibile interferenza tra l’uso di PPI e l’efficacia della doppia antiaggregazione piastrinica, in particolare per il clopidogrel. Tale farmaco, infatti, richiede un processo di attivazione molecolare a opera del fegato, che potrebbe essere inibito da alcuni PPI – in particolare omeprazolo ed esomeprazolo, molto meno pantoprazolo e rabeprazolo – con un possibile rischio per la protezione dagli eventi ischemici.
Allo stato attuale, bisogna riconoscere che i dati in tal senso sono spesso contraddittori e che non si è in grado di affermare con certezza che i PPI causino un aumento degli eventi cardiovascolari. Anche le linee guida hanno tenuto conto di queste osservazioni, come riportato nel prossimo paragrafo.

Raccomandazioni dalle linee guida

Il recente consensus della Società Europea di Cardiologia (ESC) sulla Doppia Terapia Antiaggregante (DAPT) raccomanda l’uso di un PPI durante doppia terapia antiaggregante. La raccomandazione è basata sullo studio randomizzato COGENT, che ha dimostrato l’efficacia di omeprazolo 20 mg in pazienti in DAPT (ASA + clopidogrel) nel ridurre gli eventi a carico dell’apparato gastrointestinale superiore (1.1% vs 2.9% a 180 giorni dalla randomizzazione); in questo studio, inoltre, l’uso di omeprazolo non ha incrementato il rischio di eventi avversi cardiovascolari.
Le posizioni delle più recenti linee guida sull’infarto miocardico (NSTEMI e STEMI) confermano l’indicazione alla gastroprotezione in corso di singola o doppia terapia antiaggregante, ma identificano alcuni fattori di rischio sulla base dei quali selezionare i pazienti che maggiormente si giovano di questa strategia di profilassi degli eventi. I fattori di rischio in questione sono:

  1. età ≥ 65anni;
  2. storia di dispepsia;
  3. malattia da reflusso gastroesofageo;
  4. infezione da Helicobacter pylori;
  5. abuso cronico di alcool;
  6. uso di farmaci antinfiammatori o corticosteroidi;
  7. concomitante terapia anticoagulante.

… e criteri di rimborsabilità degli organi regolatori

Può valere la pena ricordare in questa sede che in Italia, sulla base della Nota 1 AIFA, la prescrizione a carico del SSN di pantoprazolo, omeprazolo, misoprostolo, lansoprazolo e esomeprazolo è limitata alla prevenzione delle complicanze gravi del tratto gastrointestinale superiore in terapia antiaggregante con ASA a basse dosi, purché sussista una delle seguenti condizioni di rischio:

    1. storia di pregresse emorragie digestive o di ulcera peptica non guarita con terapia eradicante;
    2. concomitante terapia con anticoagulanti o cortisonici;
    3. età avanzata.

Come si potrà notare, tutte le autorità scientifiche sono d’accordo nel riconoscere il ruolo dei fattori di rischio per una corretta selezione dei pazienti.

Oltre i PPI

Accanto ai PPI, ci sono altri farmaci in grado di offrire un’azione gastroprotettiva riducendo la secrezione acida dello stomaco: tra questi si ricordano la ranitidina e il misoprostolo.
La ranitidina (antagonista del recettore dell’istamina H2) si è dimostrata meno efficace di omeprazolo nei pazienti con ulcera o lesioni della mucosa gastrica in terapia con farmaci antinfiammatori (FANS). Lo stesso si è verificato con il misoprostolo, che è tra l’altro gravato da disturbi gastrointestinali e diarrea che spesso costringono i pazienti alla sospensione. Nel complesso, i PPI sono da preferire come farmaci di prima scelta, riservando solo a casi selezionati le risorse alternative.

Conclusioni

La consapevolezza del rischio emorragico rappresenta un aspetto fondamentale quando si utilizzano farmaci antiaggreganti: non è possibile separare il vantaggio clinico dai potenziali eventi avversi che ne derivano. Questi ultimi, tuttavia, possono essere efficacemente controllati mediante risorse mediche sicure e di dimostrata utilità.
L’identificazione di fattori di aumentato rischio emorragico è un utile strumento nelle mani del medico per una prescrizione dei gastroprotettori razionale e vantaggiosa