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I farmaci anticoagulanti diretti (NAO) hanno un’azione anticoagulante rapida, raggiungendo il massimo di concentrazione plasmatica (picco) circa 2 ore dopo la somministrazione.

Hanno anche una emivita relativamente breve, con valori minimi di concentrazione plasmatica (valle) di 24 o 12 ore dopo la somministrazione, a seconda che il farmaco venga assunto una o due volte al giorno, rispettivamente.
Sulla base di queste proprietà farmacocinetiche si assume che, là dove sia necessario interrompere la somministrazione del farmaco, in base al prevedibile rischio emorragico dell’intervento chirurgico/manovra invasiva, possa essere sufficiente sospendere il trattamento qualche giorno prima dell’intervento, per essere certi che il farmaco sia completamente eliminato dal circolo, rendendo così dubitabile l’utilità del test di laboratorio, che invece sembrerebbe il presidio più logico a produrre una evidenza diretta.
Di seguito discuterò i limiti e le conseguenze che questa assunzione, seppur giustificabile dal punto di vista della farmacocinetica dei NAO, può comportare.

  1. La farmacocinetica dei NAO varia, specialmente per dabigratran e in misura minore per rivaroxaban, a seconda della funzione renale. Pazienti con clearance di creatinina ridotta eliminano il farmaco con velocità inferiore e, pertanto, c’è il rischio che un periodo canonico per la sospensione della terapia possa non essere sufficiente ad eliminare il farmaco. Mi si può obbiettare che la clearance per ogni paziente è nota, perché controllata in un passato, magari recente, e questo può, quindi, guidare alla decisione di allungare il periodo di sospensione. A mia volta obbietto, però, che la clearance molto spesso è stata determinata mesi prima e non vi è nessuna evidenza che essa si mantenga costante nel medio/lungo periodo. Caso mai esistono elementi importanti per far ritenere che nell’anziano (oggetto prevalente della terapia anticoagulante) la clearance possa variare nel tempo ed anche in maniera repentina (modificazione dello stato di salute, cambiamenti stagionali, periodi di disidratazione, ecc.).
    Si dovrebbe, allora, controllare la clearance poco prima dell’intervento. Ma mi chiedo quale è la differenza fra misurare la clearance renale e misurare l’effetto anticoagulante del farmaco con un test specifico. In quest’ultimo caso, non solo si affronterebbe il problema in maniera diretta (con una spesa di tempo e danaro molto modesta a fronte del problema che si vuole risolvere), ma si disporrebbe anche di una prova inconfutabile, da produrre in caso di contenzioso medico legale, sempre possibile in questi casi.
  2. Un secondo punto che, a mio avviso, consiglierebbe di eseguire il test specifico per il NAO è legato al fatto che, per applicare il concetto della sospensione in base alla farmacocinetica, è indispensabile conoscere con esattezza l’orario dell’ultima somministrazione del farmaco. Chi si occupa di pazienti anticoagulati, sa bene che questa informazione (che viene dal paziente) va presa con il beneficio di inventario a causa di una possibile scarsa aderenza alla terapia, che è molto più probabile per i NAO, a ragione del fatto che non richiedono una modificazione posologica e quindi un controllo di laboratorio periodico, come invece accade per gli antagonisti della vitamina K.
    Pertanto, è evidente come solo la misura dell’effetto anticoagulante mediante il test specifico di laboratorio, eseguito a ridosso dell’intervento, sia capace di fugare ogni dubbio.
  3. Nei due punti precedenti ho discusso i vantaggi del test. In quest’ultimo punto discuterò brevemente i possibili svantaggi.
    Qualcuno obbietta che non c’è consenso sui test da usare. Falso problema: i test specifici per i diversi farmaci sono riportati e discussi in documenti di consenso che sono disponibili in letteratura.
    Brevemente, esiste il tempo di trombina diluito (dTT) o il test all’ecarina (ECT) per il dabigatran; l’attività anti-fattore Xa o il tempo di protrombina (PT), eseguito con tromboplastina sensibile, per il rivaroxaban ed infine, l’attività anti-fattore Xa per apixaban. Per approfondire questo argomento leggete l’articolo “Test per il controllo per i NAO“. Altri obbiettano che i test, è vero esistono, ma non sono prontamente reperibili. Altro falso problema.
    Tutte le maggiori compagnie del diagnostico, che operano nel nostro Paese, dispongono in proprio o indirettamente dei test necessari e, a richiesta delle aziende ospedaliere, possono far fronte al fabbisogno, anche fuori gara d’appalto. Altro argomento usato contro l’esecuzione del test è la mancanza di uno specifico cut-off di concentrazione, universalmente accettato al di sotto del quale si possa dar luogo alla chirurgia/manovra invasive in sicurezza. Vero, ma solo in parte: non esistono ancora cut-off validati dalla pratica clinica (i NAO sono usati da troppo poco tempo!), ma è ragionevole supporre che livelli di concentrazione vicini allo zero possano essere interpretati come sicuri per procedere all’intervento. Ultimo argomento contro il test sarebbe che la sua esecuzione possa complicare l’organizzazione intraospedaliera, in quanto alcuni interventi programmati potrebbero essere posticipati per eccesso di scrupolo e per motivi difensivi, senza un reale vantaggio, creando così situazioni difficilmente gestibili (scarso utilizzo delle sale operatorie), in un periodo storico nel quale le aziende ospedaliere sono di fatto costrette a badare sempre di più alla “produzione”, forse a scapito della “qualità” delle prestazioni.
    Il problema in effetti esiste, ma non si può pensare di risolverlo creandone un altro. Non è una buona pratica quella di nascondere la polvere sotto il tappeto. Forse è meglio eliminarla.
    In questo caso la si elimina con una buona organizzazione del lavoro e con molto buon senso.
    Per quanto discusso è mia ferma opinione, in questa fase di scarsa conoscenza (i NAO si usano da troppo poco tempo!) e fino a quando non saranno raccolte informazioni più attendibili (ma ci vuole qualche anno di lavoro, ad essere ottimisti) come sia utile eseguire i test, poco prima della chirurgia e/o manovra invasiva ed effettuare la manovra solo nei casi (e potrebbero essere la maggioranza se si osservano le regole della farmacocinetica) nei quali il farmaco circolante è a livelli relativamente bassi; quanto bassi non è al momento possibile dirlo, ma il buon senso unito alla buona pratica clinica, sulla valutazione del rischio emorragico nel singolo paziente, possono suggerire come procedere.
    Ritengo inoltre, che questa strategia debba essere seguita per gli interventi in urgenza, ma anche per quelli programmati. Tutto ciò per evitare rischi inutili sia per il paziente (sanguinamenti evitabili) sia per il medico e per l’azienda ospedaliera (motivi medico-legali). La spesa di tempo e danaro (in questo caso relativamente modesta) è ampiamente giustificata dall’obbiettivo che si vuole raggiungere. Per ultimo vorrei far rilevare che nessuno si sognerebbe di fare un intervento chirurgico o manovra invasiva senza prima verificare che, in un paziente trattato con gli antagonisti della vitamina K, l’INR sia a livelli sub-terapeutici. Curiosamente questa regola di buon senso sembra (per taluni) non essere valida per i NAO.