Gli anticoagulanti orali diretti (NAO o DOAC) sono oggi raccomandati dalle linee guida internazionali come trattamento di prima scelta per il paziente con trombosi venosa profonda e/o embolia polmonare.
L’indicazione è basata sui risultati degli studi registrativi, che hanno dimostrato una simile efficacia ed una maggiore sicurezza rispetto alla terapia con eparina e warfarin, e sulla maggiore praticità offerta da queste molecole. Nella pratica clinica viene riportato un crescente utilizzo dei NAO per questa indicazione, al punto che le prescrizioni avrebbero superato quelle del warfarin. I primi dati osservazionali confermano sostanzialmente i risultati degli studi di fase III. Tuttavia, al di fuori dei trials le prescrizioni dei farmaci non sono sempre coerenti con quanto studiato e anche con quanto previsto dalla scheda tecnica, sia per quanto riguarda i dosaggi che per quanto riguarda la durata del trattamento. A volte è il medico che “adatta” il trattamento al proprio paziente, altre volte è il paziente che modifica la prescrizione arbitrariamente. Le conseguenze di queste scelte sono potenzialmente pericolose.
É stato recentemente pubblicato sulla rivista Thrombosis and Haemostasis uno studio internazionale tratto dal registro sui pazienti affetti da tromboembolismo venoso RIETE. In questo studio gli autori hanno valutato 1635 pazienti trattati con NAO per la terapia acuta della trombosi venosa profonda e dell’embolia polmonare e 1725 pazienti in prevenzione secondaria a lungo termine. Scopo dello studio era proprio di stimare la frequenza con cui si osservano delle “deviazioni” dai dosaggi raccomandati e le conseguenze di queste deviazioni, confrontando l’incidenza di recidive di trombosi venosa e di emorragie maggiori e mortalità tra pazienti che ricevevano dosi corrette e pazienti che ricevevano dosi modificate.
I risultati dello studio sono piuttosto impressionanti. Quasi un paziente su 5 trattato con rivaroxaban nella fase acuta della patologia e un paziente su due trattato con apixaban ha ricevuto dosi diverse da quelle raccomandate. In prevenzione secondaria, le percentuali erano di 14% per rivaroxaban, 36% per apixaban e 46% per dabigatran.
Le conseguenze di questa anarchia terapeutica? Le recidive di tromboembolismo venoso, ossia il fallimento terapeutico, sono state 10 volte più frequenti nei pazienti che hanno ricevuto trattamenti modificati, mentre gli eventi emorragici e la mortalità sono risultate comparabili tra i due gruppi. Come ci si può attendere, nella maggior parte dei casi le variazioni effettuate consistevano nella riduzione dei dosaggi e i pazienti che hanno ricevuto dosi ridotte erano più fragili, per età avanzata, alterata funzione renale o presenza di patologie associate. Come è noto, questi pazienti sono effettivamente ad aumentato rischio emorragico ma, contemporaneamente, ad aumentato rischio trombotico. L’aumento delle recidive di trombosi nel confronto tra i due gruppi è stato confermato dopo avere aggiustato l’analisi statistica per i fattori di rischio sottostanti nelle due popolazioni.
Come interpretare questi dati? Variazioni posologiche non supportate dai risultati degli studi espongono i pazienti a rischi importanti. Pur comprendendo le possibili ragioni di tali scelte davanti a pazienti che spesso non sono rappresentati adeguatamente negli studi registrativi e nei confronti dei quali esiste timore di poter arrecare danno, non possono essere trascurate le conseguenze di un trattamento inefficace soprattutto in presenza di una patologia acuta e potenzialmente fatale. Per questo motivo, si ritiene piuttosto preferibile ricorrere a trattamenti più collaudati nella terapia di pazienti particolarmente complessi, in questo caso le eparine e il warfarin.
Bibliografia
Trujillo-Santos J et al. Real-life treatment of venous thromboembolism with direct oral anticoagulants: The influence of recommended dosing and regimens. Thromb Haemost. 2017 Jan 26;117(2):382-389. doi: 10.1160/TH16-07-0494.