Il D-dimero (DD) è un frammento della degradazione della fibrina stabilizzata, operata dalla plasmina, l’enzima chiave della fibrinolisi.

Come tale, il DD può essere considerato un indice biochimico di deposizione di fibrina organizzata in un coagulo, tanto importante e prezioso se si considera che la sua permanenza in circolo è relativamente breve. Pertanto, può essere considerato come un buon marcatore biochimico di trombosi in atto.

Tuttavia, esistono numerose condizioni, nelle quali i livelli plasmatici del DD sono elevati, ma queste condizioni non sono sempre direttamente associate alla trombosi. Di seguito sono elencate le condizioni ad aumentato livello di DD.

  • Età avanzata
  • Ictus cerebrale
  • Periodo neonatale
  • Arteriopatia periferica
  • Gravidanza
  • Aneurismi
  • Ospedalizzazione
  • Insufficienza cardiaca congestizia
  • Disabilità
  • Crisi emolitica (anemia falciforme)
  • Infezioni
  • Emorragie
  • Cancro
  • Chirurgia recente
  • Trauma
  • Ustioni
  • Malattie infiammatorie intestinali
  • Coagulazione intravascolare disseminata
  • Terapia trombolitica
  • Tromboembolismo venoso
  • Dissecazione aortica
  • Cardiopatia ischemica

Il D-dimero è un parametro di laboratorio, che può aiutare il medico a gestire meglio il paziente anticoagulato, a patto che venga usato con giudizio.
In generale, tutte le volte che si prescrive un test di laboratorio, bisognerebbe avere in mente due principi generali.
Il test non dovrebbe essere mai prescritto in maniera indiscriminata, ma dovrebbe seguire una logica diagnostica ed essere riferito a situazioni particolari, che possano aiutare il medico a giungere alla diagnosi, oppure aiutarlo a prendere decisioni sulla terapia. L’interpretazione del risultato del test sembrerebbe banale. Molti pensano che basti paragonare il risultato del paziente “all’intervallo di normalità” che accompagna il referto, o meglio ancora guardare se c’è “l’asterisco” accanto al risultato del paziente e decidere così se il risultato è “normale” o “patologico”. La realtà è molto più complessa. Il risultato deve essere inquadrato in un contesto che prenda in considerazione i risultati di altri test, la condizione clinica che il medico sta indagando, il sospetto diagnostico, l’età e genere del paziente e altri ancora. Inoltre, i risultati di tutti i test di laboratorio (questo pochi lo sanno!) sono soggetti a una serie di variabili, alcune cosiddette “biologiche”, che sono parte integrante dei sistemi viventi e sono quindi difficilmente definibili e controllabili. Potrebbe quindi succedere che un individuo “sano” abbia occasionalmente dei valori di un test leggermente (a volte francamente) alterati, senza che questo comporti necessariamente uno stato patologico. Ovviamente, è vero anche il contrario: avere risultati dei test nella norma, suggerisce che il soggetto è probabilmente in buona salute, ma non dà garanzie assolute in questo senso. Infine, bisogna sempre considerare che la medicina (ahinoi!) non sempre è in grado di interpretare e dare soluzione a tutti i problemi. Ci potrebbe quindi essere un test alterato, per il quale al momento non ci sono spiegazioni.
Questo ragionamento è più che mai applicabile alla misura del D-dimero, un parametro di laboratorio molto utile al medico per escludere (sempre se valutato insieme ad altre informazioni cliniche) la diagnosi di tromboembolismo venoso (occlusione delle vene profonde degli arti inferiori e embolia polmonari, vedere a questo proposito l’altro contributo del portale sullo studio Palladio). Sempre nello stesso contesto e con le medesime cautele interpretative, la misura del D-dimero potrebbe essere utile per decidere la durata ottimale del trattamento anticoagulante, dopo un primo evento di tromboembolismo venoso. Il D-dimero è dunque un ottimo strumento di laboratorio, a patto che venga usato e interpretato correttamente e nel giusto contesto.

Uso del D-dimero per la diagnosi del tromboemobolismo venoso (TEV) acuto

Come si vede solo alcune delle condizioni prima elencate sono direttamente associate al fenomeno trombotico. L’dea quindi di usare il DD per confermare il sospetto clinico di trombosi in atto (particolarmente il TEV), emersa più di trenta anni or sono, ha dovuto misurarsi con una serie di ostacoli. In effetti, il DD seppure molto sensibile per il TEV in atto, è scarsamente specifico per questa condizione. In questo contesto, l’osservazione più rilevante risale ai primi anni ’90 del secolo scorso quando Bounameux e i suoi colleghi misurarono il DD in una popolazione di soggetti riferiti al pronto soccorso del loro ospedale per sospetto di embolia polmonare (EP). Da un primo esame dei risultati emergeva che i pazienti, per i quali era stata successivamente confermata l’EP con indagini strumentali, avevano mediamente valori di DD maggiori di quelli per i quali la diagnosi di EP era stata esclusa. Esisteva però un’ampia sovrapposizione dei valori di DD fra i due gruppi. Pertanto, gli autori conclusero che i livelli di DD non potevano essere (come loro in un primo momento avevano ipotizzato) usati per confermare la diagnosi di EP. Tuttavia, a un riesame dei dati, realizzarono che considerando un valore di cut-off (inizialmente arbitrario) pari a 500 µg/L, l’aspetto del grafico di distribuzione dei risultati cambiava radicalmente. Solo uno dei pazienti a cui era stata confermata la diagnosi strumentale di EP aveva valori di DD inferiori al cut-off. Lo stesso pattern fu successivamente rilevato nei pazienti con sospetto di trombosi venosa profonda. Emerse allora il concetto che, sebbene i livelli di DD non potevano essere usati per confermare la diagnosi di TEV, potevano essere usati per escluderla. La storia più recente ha dimostrato, mediante studi più approfonditi, che la misura dei livelli di DD, nelle popolazioni di pazienti ambulatoriali con sospetto di TEV, unitamente alla raccolta codificata di alcune informazioni cliniche consentiva di escludere il TEV con sicurezza nella maggior parte dei pazienti, senza ricorrere alle indagini strumentali più lunghe e costose. A seguito di questa procedura, restava quindi un numero relativamente modesto di pazienti, per i quali era necessario confermare la diagnosi con indagini strumentali. L’algoritmo diagnostico al momento adottato da molti centri in questo contesto, prevede per il paziente ambulatoriale con sospetto di TEV, che il medico raccolga le informazioni cliniche relative allo “Score di Wells” e nel frattempo faccia misurare i livelli di DD. Se il paziente ha uno Score (numerico) di Wells relativamente basso (che significa che la probabilità clinica di TEV è nulla o bassa) e i livelli di DD sotto il valore di cut-off per quel metodo, allora la diagnosi di TEV può essere esclusa con ragionevole certezza. Se viceversa, lo Score di Wells è alto (probabilità clinica elevata di TEV), allora, indipendentemente dai valori di DD, la diagnosi di TEV deve essere confermata con indagini strumentali. L’algoritmo è relativamente semplice, ma richiede attenzione per due aspetti.

Il primo, riguarda lo Score di Wells. È questo un semplice sistema che assegna un punteggio a seconda che il paziente presenti (punteggio 1) o non presenti (punteggio 0) un segno clinico o una caratteristica. Esiste uno score di Wells per la trombosi venosa profonda e uno per l’EP. Il lettore può fare riferimento alla letteratura per maggiori dettagli.

Il secondo, riguarda la scelta del metodo per la misura del DD. Esistono in commercio molti metodi, che sfruttano per lo più sistemi immunoenzimatici, con anticorpi monoclonali più o meno specifici per il DD. Fra le altre cose, quella che è più importante considerare per la scelta del metodo, è il valore di cut-off, fondamentale per prendere decisioni. Esso deve essere determinato mediante studi clinico-laboratoristici su pazienti con sospetto di TEV, sui quali è stato misurato il DD plasmatico e il TEV è stato escluso o confermato con indagini strumentali. Dopo analisi dei dati è possibile stabilire il valore di cut-off, che consenta la migliore sensibilità e una accettabile specificità per il TEV. L’ente americano per il controllo dei farmaci e delle procedure diagnostiche (FDA), detta regole ben precise per la determinazione del cut-off per il DD e rilascia apposito certificato, solo a quei metodi che soddisfano i criteri stabiliti. Anche se non c’è un analogo certificato in Europa, è bene che l’utilizzatore si accerti che il metodo scelto abbia il certificato FDA. È inoltre utile ricordare che il valore di cut-off per alcuni metodi potrebbe essere diverso rispetto al consueto “intervallo di riferimento normale”. Quest’ultimo è infatti determinato su una popolazione di soggetti normali e non può essere utilizzato per escludere il TEV. Infine, sono stati di recente introdotti cut-off per il DD aggiustati per l’età del paziente. Poiché i livelli di DD aumentano con l’invecchiamento, anche i cut-off dovrebbero essere tendenzialmente più alti con il progredire dell’età. In effetti, cut-off aggiustati per età consentono di escludere con maggiore affidabilità il TEV (maggiori informazioni sul portale, nella sezione dedicata alla ricerca italiana).

Uso del D-dimero per determinare la durata ottimale della profilassi antitrombotica

A seguito del riconoscimento dell’utilità della misura del DD per l’esclusione del TEV, numerose ricerche hanno dimostrato che il DD poteva anche essere utile per stabilire la durata ottimale della profilassi antitrombotica. A seguito del primo evento di TEV, il paziente viene di solito curato per la trombosi in atto e successivamente viene messo in profilassi per evitare la recidiva. Il medico si trova però davanti alla decisione sulla durata ottimale della profilassi. Solitamente la profilassi viene eseguita per 3-6 mesi e successivamente il paziente viene rivalutato. Gli studi sul DD hanno permesso di stabilire che i pazienti che alla sospensione della terapia avevano livelli di DD superiori al cut-off, erano più esposti al rischio di recidiva. A seguito di queste osservazioni è stato ipotizzato che questi pazienti potessero giovarsi di un periodo di anticoagulazione più esteso. Per validare questa ipotesi è stato predisposto uno studio clinico randomizzato, il Prolong. I pazienti che avevano seguito un regolare corso di anticoagulazione, dopo primo evento sono stati avviati alla misura del DD alla sospensione della terapia. Coloro i quali avevano il DD sotto il cut-off non riprendevano la terapia. Viceversa, coloro i quali avevano livelli di DD superiori al cut-off, venivano randomizzati in due gruppi: il primo sospendeva la terapia e il secondo la riprendeva. Tutti i pazienti sono stati seguiti nel tempo per rilevare le eventuali recidive di TEV. I risultati dello studio hanno permesso di validare l’ipotesi di partenza. Ovvero, i pazienti che alla sospensione della terapia avevano un DD superiore al cut-off, ma che avevano ripreso la terapia presentavano un’incidenza di TEV significativamente minore di quelli che, pur avendo pari livelli di DD l’avevano sospesa. Studi successivi con disegno similare, hanno confermato quei risultati, fornendo così al clinico la possibilità di usare il DD per decidere sulla durata ottimale della profilassi anticoagulante.

Uso del D-dimero per la diagnosi e il monitoraggio della coagulazione intravascolare disseminata (CID)

La coagulazione intravascolare disseminata (CID) è una condizione clinica complessa, secondaria a molte condizioni cliniche (patologie gravidiche, sepsi, traumi, tumori, anomalie vascolari, intossicazioni/allergie, aneurismi, ecc.) ed è caratterizzata da un’attivazione massiva e sistemica della coagulazione e della fibrinolisi, che porta (se non adeguatamente trattata) ad una progressiva e rapida deplezione del potenziale pro e anti-coagulante del sangue e a una diminuzione rilevante del numero delle piastrine. I pazienti con CID si possono presentare con fenomeni trombotici o emorragici. La diagnosi, ma soprattutto la progressione della CID, si avvale del contributo del laboratorio. La misura di alcuni parametri della coagulazione (PT, APTT, conta piastrinica e fibrinogeno, per ricordare i più importanti) si affianca alla misura dei prodotti di degradazione del fibrinogeno/fibrina, che aumentano in corso di CID per l’attivazione concomitante della fibrinolisi. Negli ultimi anni la misura del DD è stata presa in considerazione nella diagnostica/monitoraggio della CID, come indice rappresentativo di tutti i prodotti di degradazione del fibrinogeno/fibrina, che si generano in quella condizione. A dire il vero non ci sono sufficienti evidenze che il DD possa sostituire la misura degli altri prodotti di degradazione (monomeri di fibrina, fibrina solubile, ecc.), ma considerata la relativa facilità di esecuzione della misura, il DD ha praticamente sostituito tutte la altre misure dei prodotti di degradazione.

Altri usi del D-dimero

Scorrendo la letteratura ci si imbatte in altri potenziali usi del DD, la cui efficacia è però tutta da verificare. Ecco un lista:

  • Valutazione del rischio per primo evento di ischemia coronarica
  • Valutazione del rischio di primo evento di TEV
  • Valutazione dell’outcome della gravidanza a rischio
  • Aneurisma dell’aorta addominale

L’efficacia delle sua misura in queste condizioni è ancora tutta da valutare.

Conclusioni

Il DD è uno dei parametri dell’emostasi più formidabili che siano stati sviluppati negli ultimi trenta anni. L’uso di anticorpi monoclonali, specifici per gli epitopi che si generano sul frammento DD, una volta che la fibrina stabilizzata è stata digerita, in combinazione con le tecnologie al lattice per fare aderire gli anticorpi monoclonali, hanno permesso di sviluppare metodi altamente specifici per il DD, ma nel contempo semplici e rapidi da eseguire anche nel laboratorio generale. Le intuizioni originali che ne sono seguite, suffragate dagli studi clinici, hanno permesso di trovare applicazioni pratiche di questo interessante parametro nella gestione del paziente con TEV, che si riassumono nell’utilità del DD per l’esclusione del TEV acuto, nella valutazione del rischio di recidiva di TEV e nella valutazione della durata ottimale della profilassi antitrombotica dopo un primo evento di TEV. Inoltre, la misura del DD è anche utile per la diagnosi/monitoraggio della CID. Su basi prettamente fisiopatologiche si possono prevedere altri usi, che necessitano ancora di studi clinici di validazione. Al di fuori delle condizioni di cui sopra, il DD è poco utile, i risultati sono di difficile interpretazione e quindi la sua misura non dovrebbe essere prescritta.

Bibliografia

  • Tripodi A. D-Dimer Testing in Laboratory Practice. Clin Chem 2011; 57: 1256-62.
  • Palareti G, Cosmi B, Legnani C, Tosetto A, Brusi C, Iorio A, Pengo V, Ghirarduzzi A, Pattacini C, Testa S, Lensing AW, Tripodi A; PROLONG Investigators. D-dimer testing to determine the duration of anticoagulation therapy. N Engl J Med 2006 26; 355: 1780-9.