Quando iniziare la terapia anticoagulante dopo un ictus ischemico
Il 20-30% di tutti gli ictus ischemici ha una origine cardio embolica legata prevalentemente alla presenza di una fibrillazione atriale. Pertanto, la decisione sul timing appropriato per l’inizio della terapia anticoagulante dopo un ictus ischemico cardioembolico è un problema frequente e di non facile risoluzione per il medico ospedaliero che si trova a dover bilanciare il rischio dell’infarcimento emorragico della lesione ischemica, soprattutto se di grandi dimensioni, con il rischio di recidiva.
L’argomento è stato affrontato da prof. Gian Marco Podda dell’Università degli Studi di Milano, il quale ha illustrato i recenti studi TIMING (1), ELAN (2) e OPTIMAS (3), che hanno fornito indicazioni a favore di un inizio precoce dei DOAC (entro 4 giorni) nel TIA ed ictus lieve\moderato. Tuttavia, ha concluso Podda, “non abbiamo ancora una risposta certa dagli studi clinici che ci consenta di superare lo schema di inizio della terapia anticoagulante 1-3-6-12, cioè dopo uno (TIA)- tre (ictus lieve) -sei (ictus moderato) e dodici (ictus severo) giorni basandoci sulla scala di gravità NHISS, proposto dalle precedenti linee guida ESC” (4).
Emorragia intracranica in corso di anticoagulanti
Nonostante i DOAC siano associati ad un rischio significativamente inferiore di emorragie intracraniche (ICH) rispetto ai “vecchi” dicumarolici, questo rischio è ancora presente e clinicamente molto rilevante se si considera che, secondo i dati dello studio GALENO (submitted) (5), presentato dal Prof. Francesco Marongiu e dalla Prof.ssa Doris Barcellona dell’Università di Cagliari, su 530 pazienti in terapia anticoagulante orale giunti in PS per emorragia maggiore, oltre un terzo (36,6%) di quelli che presentavano una ICH (30/526) ha avuto un esito fatale. Solo il 63% dei pazienti ha ricevuto un reverse corretto, come indicato dalle linee guida (6).
Inoltre, quando riprendere la anticoagulante dopo un episodio di ICH rimane una scelta particolarmente complessa per la quale le linee guida disponibili, che parlano di una sospensione di 4-8 settimane (ridotte a due in presenza di valvola meccanica o altre condizioni ad alto rischio tromboembolico), forniscono indicazioni che devono attentamente essere bilanciate nel singolo caso (7, 8, 9).
Uno studio condotto dai centri FCSA in “epoca warfarin” ha documentato una incidenza cumulativa di recidiva del 7,5% in 267 pazienti che avevano ripreso il warfarin dopo una ICH, ad un follow up mediano di 16 mesi, con una mortalità del 25% (10). Lo studio PRESTIGE-AF, appena pubblicato, ha evidenziato una incidenza di recidiva di ICH di 5 per 100 anni paziente (95% CI 2,68-8,39) in soggetti con fibrillazione atriale che avevano ripreso la terapia con DOAC contro lo 0,82 per 100 anni paziente (95% CI 0,14-2,53) nel gruppo dei pazienti non anticoagulati (11).
Trombolisi e trombectomia per l’ictus ischemico: problemi e novità
Il dott. Andrea Zini, Direttore dell’Unità Operativa di Neurologia e Rete Stroke Metropolitana Ospedale Maggiore-IRCCS Istituto delle Scienze Neurologiche di Bologna, ha discusso delle importanti novità nel campo della terapia interventistica dell’ictus ischemico, che oggi si avvale di trombolisi e trombectomia meccanica. “Pur rimanendo tempo-dipendente, l’offerta delle terapie di riperfusione è cresciuta negli ultimi anni.- Ha spigato Zini- Grazie al neuroimaging avanzato si è arrivati ad offrire una finestra tissue based, basata sul tessuto cerebrale realmente salvabile e non sull’ora dell’orologio in cui è insorto l’ictus”. Infatti, la trombectomia “extra-finestra” oggi può arrivare fino a 24 ore dall’esordio e la trombolisi fino a 9 ore.
Ma la novità più importante sarà l’introduzione, attesa tra un paio di mesi, di un nuovo trombolitico, il tenecteplase, più maneggevole (emivita più lunga, maggiore selettività per la fibrina del trombo, minore azione sul PAI-1) e che ha già dimostrato di “fare meglio “ dell’alteplase, attualmente utilizzato, in termini di riperfusione ed esiti funzionali quando somministrato prima della trombectomia. Al contrario di quanto atteso, il tenecteplase non ha dato risultati migliori, nello studio di confronto con alteplase, sull’incidenza di emorragia cerebrale, che è stata comunque piuttosto bassa in entrambi i gruppi (3,4 % tenecteplase e 3.2% alteplase) (12).
Alla luce dei recenti studi che hanno documentato un importante ruolo della coagulopatia da consumo di fibrinogeno, legata alla mancata selettività dell’alteplase (rtPA) per la fibrina del trombo, nel determinare il rischio di ICH post trombolisi, i ricercatori si aspettavano una minore incidenza di ICH nel gruppo trattato con tenecteplase (che ha una azione più selettiva) (13-16). Tuttavia, come sempre, i risultati di questo primo trial andranno verificati da ulteriori studi.
Notevole attesa vi è anche per lo studio FibER, attualmente in corso e coordinato da Zini e colleghi, che si propone di verificare se la somministrazione di fibrinogeno ai pazienti in cui viene documentata una coagulopatia da consumo nelle prime ore dopo la trombolisi sia efficace nel ridurre l’incidenza di eventi emorragici cerebrali.
Cirrosi epatica e coagulazione
La cirrosi epatica determina una riduzione della concentrazione plasmatica di tutti i fattori della coagulazione (tranne il fattore VIII ed il fattore di von Willebrand), sia di quelli pro-coagulanti che di quelli anticoagulanti (come proteina C e antitrombina), altrettanto importanti nel bilancio coagulativo. Per tale motivo “il concetto di una emostasi ribilanciata è forse il più attuale-ha spiegato il prof. Vincenzo La Mura del Centro Emofilia e Trombosi Angelo Bianchi Bonomi del Policlinico di Milano e Università di Milano.
Un sottile equilibrio, quello del paziente con cirrosi, che facilmente può sbilanciarsi in senso trombotico od emorragico. “I test coagulativi di screening PT e aPTT non sono rappresentativi del fenotipo emorragico” – ha continuato La Mura- “in quanto non tengono conto del contributo di tutti i fattori in gioco, sia pro che anticoagulanti”.
Infatti, quando vengono eseguiti test coagulativi globali, come la generazione di trombina (con aggiunta di trombomodulina) si può con sorpresa scoprire che il risultato non differisce tra paziente con cirrosi epatica ed un soggtto sano (17). Pertanto, la maggior parte delle linee guida insistono sulla mancata utilità dei test coagulativi di base (PT e aPTT) per individuare il rischio emorragico e sconsigliano la somministrazione routinaria di agenti pro-emostatici (ad esempio per correggere il PT) prima delle procedure invasive. Ma la discordanza delle linee guida su questo argomento (18) sottolinea la forte incertezza che attanaglia i clinici di fronte ad un paziente cirrotico che deve sottoporsi ad una procedura a rischio di sanguinamento.
Al fine di produrre un documento di consenso condiviso, è stata recentemente condotta una survey tra esperti, i quali si sono espressi in merito alla classificazione delle procedure ad alto o basso rischio ed hanno proposto un algoritmo per stratificare e gestire il rischio emorragico dei pazienti cirrotici che vanno incontro ad una procedura invasiva (19).
Tuttavia, la difficoltà nel raggiungere un ampio consenso condiviso sul da farsi poggia anche e soprattutto sulla mancanza di un test di laboratorio che sia rappresentativo dell’effettivo stato coagulativo globale del paziente cirrotico. “Sicuramente i test globali su sangue intero (come la generazione di trombina e i test viscoelastici) possono dare un notevole aiuto ma hanno ancora dei grossi limiti, in particolare la generazione di trombina, il cui utilizzo è generalmente limitato a laboratori di ricerca. Tuttavia, la strada tracciata è questa ”-ha concluso La Mura.
Trattamento della trombosi venosa portale in pazienti con cirrosi epatica
“La trombosi venosa portale (PVT) è considerata rara ma in realtà non lo è” – ha detto il prof. Fabio Piscaglia dell’Università di Bologna. Infatti, l’incidenza annuale di PVT completa nei pazienti cirrotici è del 2-10%, ma sale ad oltre il 10% se si considera quella parziale (che interessa solo una parte del lume del vaso). Solo un terzo dei casi vanno incontro a miglioramento in assenza di trattamento.
Recenti studi hanno dimostrato che il trattamento con anticoagulanti (è stata utilizzata principalmente l’eparina a basso peso molecolare) non solo favorisce la ricanalizzazione della vena riducendo l’ipertensione portale, che è il principale fattore di rischio per sanguinamento da varici esofagee, ma riduce anche la mortalità complessiva dei pazienti (20). L’atteggiamento attuale è quindi quello di ricercare la PVT ai controlli ecografici dei pazienti cirrotici e di trattarla con anticoagulanti, in particolare se la trombosi è recente, interessa più del 50% del lume del vaso e non ha avuto un trasformazione cavernomatosa (21,22).
Indicazioni in questa direzione vengono anche dalle più recenti linee guida (22), mentre una maggiore incertezza , per la mancanza di evidenze “robuste”, esiste a proposito del timing per la sospensione e del tipo di terapia anticoagulante da preferire. “In generale- ha spiegato Piscaglia- è indicata una terapia di almeno sei mesi. Poi va valutato il singolo caso, tenendo presente che, dopo la sospensione, un terzo dei pazienti recidiva. Pertanto, se si decide di sospendere, va effettuato uno stretto follow-up ecografico”.
Gestione della terapia anticoagulante nel paziente con fibrillazione atriale e cirrosi epatica
“La cirrosi epatica è un fattore di rischio indipendente per la fibrillazione atriale (FA), che si verifica nel 6-14% dei cirrotici” – ha spiegato la dott.ssa Nicoletta Riva dell’Università di Malta. Il problema di anticoagulare a lungo termine questi pazienti, che hanno un aumentato rischio sia emorragico che trombotico, non è di facile risoluzione. Una recente guidance dell’ISTH raccomanda di seguire le linee guida generali riguardo l’indicazione all’anticoagulazione per i pazienti cirrotici con FA e Child-Pugh A o B (terapia anticoagulante è raccomandata se CHA2DS2-VASc score ≥ 2 negli uomini o ≥ 3 nelle donne; suggerita se CHA2DS2VASc score = 1 negli uomini o = 2 nelle donne) , mentre per i pazienti cirrotici con FA e Child-Pugh C non vi sono evidenze adeguate riguardo al rapporto rischio/beneficio dell’anticoagulazione (23).
“Per quanto riguarda la scelta del farmaco – ha continuato Riva- nei pazienti cirrotici con FA e Child-Pugh A o B viene suggerito l’uso di DOAC a dosi standard (rivaroxaban controindicato in Child-Pugh B n.d.r.), rispetto agli AVK, per la maggiore efficacia e sicurezza”. Una recente ampia metanalisi, sebbene condotta solo su pazienti asiatici, ha documentato un rischio analogo di eventi ischemici con la dose ridotta di DOAC a fronte di una riduzione delle emorragie maggiori (24).
In generale tutti i DOAC sono controindicati nei cirrotici con Child-Pugh C. Tuttavia, recenti studi iniziano a fornire dati di sicurezza anche in questi pazienti (25).
Nei soggetti cirrotici con FA ad alto rischio di ictus e non candidati all’anticoagulazione, o in cui l’anticoagulazione abbia fallito, viene suggerito di valutare caso-per-caso se procedere con la chiusura dell’auricola sinistra (23).
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