Lo affermano le più recenti linee guida e alcuni recenti studi, eppure per i pazienti è ancora difficile seguire le indicazioni in modo continuativo. L’auspicio è creare team multidisciplinari che possano seguirli con consigli personalizzati in base alla patologia.

Le recenti linee Guida AHA/ACC sulla prevenzione primaria delle malattie cardiovascolari1 e convincenti nuovi studi clinici sulla capacità dell’attività fisica di impattare sulla mortalità, riducendola, di quanti abbiano o meno presentato una malattia cardiovascolare (CVD)2 stanno imponendo una visione che conferisce agli stili di vita e agli interventi comportamentali potenzialità non inferiori a quelle della terapia farmacologica ma senza effetti collaterali. Eppure, anche nei Paesi occidentali, l’uso di queste risorse è lungi dall’essere ottimale a causa di barriere che sono in gran parte culturali. Gli studi Euroaspire III3 e V4 hanno drammaticamente dimostrato che in soggetti ancora esenti da malattie cardiovascolari l’attività fisica è praticata da non più del 20%; Il 17% fuma e il 35% è obeso. Ma anche la maggior parte dei pazienti coronaropatici non raggiunge quanto raccomandato dalle linee guida la prevenzione secondaria, con alte percentuali di soggetti ancora dediti al fumo, che seguono diete non salutari e non praticano attività fisica. Importanti ostacoli sono rappresentati non solo dalla scarsa consapevolezza dei pazienti circa i benefici di uno stile di vita sano ma anche da un insufficiente intervento dei medici5,6. E questo è tanto più grave quanto più chiaramente emerge il beneficio di abitudini di vita sane con le linee guida che stanno definendo sempre meglio come adottarle.

Qual è la dimensione del beneficio di stili di vita sani oltre ai comprovati vantaggi in termini di sopravvivenza? Per rispondere potrà servire l’esempio a proposito del trattamento anti-ipertensivo per il quale è stato dimostrato che ciascuno dei due approcci, esercizio fisico o terapia farmacologica, produce risultati simili nell’abbassamento della pressione arteriosa7. È stato anche dimostrato che l’abitudine all’esercizio fisico e la dieta possono ridurre l’uso di farmaci antiipertensivi8. Considerazioni simili valgono anche per il diabete9. Non c’è motivo di non ipotizzare, anche se non esiste evidenza su questo, che l’esercizio fisico e la dieta possano contribuire al raggiungimento degli obiettivi metabolici e pressori con un risparmio nell’uso di farmaci in termini del loro numero e della loro dose.

La prima parte della nuova linea guida AHA/ACC dedicata alla dieta, all’esercizio fisico e al sovrappeso, risponde all’inerzia della popolazione e dei medici con ulteriori raccomandazioni e suggerimenti che avvicinano sempre più questo intervento a ciò che viene fatto con i farmaci. Come, ad esempio, quelli relativi alla necessità di aggiungere alla prescrizione delle modifiche dietetiche la valutazione della percezione che il paziente ha delle dimensioni del proprio corpo, la valutazione dei potenziali ostacoli all’aderenza a una dieta salutare e le possibili influenze sociali e culturali.

Ciò che emerge dalle nuove linee guida è la definizione sempre più dettagliata di algoritmi per la gestione delle condizioni di rischio vascolare come ipertensione arteriosa, diabete e anomalie lipidiche. In questi algoritmi le soglie per iniziare con il trattamento farmacologico sono definite con precisione. Prima di tali soglie, per molti soggetti sussiste solo l’indicazione ad intraprendere misure dietetiche e fisiche che devono essere dettagliate e seguite con la stessa attenzione con cui si segue un trattamento farmacologico.

Analogamente a quanto proposto nelle linee guida della Società europea di cardiologia nel 2016, anche le attuali linee guida AHA/ACC descrivono in dettaglio questi interventi. Ma ci sono anche cambiamenti rispetto al passato che meritano di essere commentati. Per decenni, le linee guida nutrizionali si sono concentrate sulla riduzione del grasso totale degli alimenti e degli acidi grassi saturi, supponendo che la sostituzione di questi ultimi con carboidrati e grassi insaturi avrebbe ridotto il rischio di eventi cardiovascolari. Studi recenti10 indicano che potrebbe non essere necessario ridurre la quantità di grassi nella dieta. Ora, viste le controversie sul tema, le linee guida AHA/ACC hanno preferito concentrare la raccomandazione sulla necessità di cambiare la qualità dei grassi nella dieta per ottenere risultati migliori nella prevenzione cardiovascolare ed è per questo che, come già fatto dalle linee guida europee10, viene sottolineata la raccomandazione di eliminare gli acidi grassi trans e sostituire i grassi saturi con grassi monoinsaturi e polinsaturi.

Se è vero che possono ancora esistere aspetti controversi circa le raccomandazioni nutrizionali, data la natura osservazionale degli studi che le generano, possono esistere pochissimi dubbi sui consigli relativi all’esercizio fisico.

Anche nel campo dell’esercizio fisico, ancor più che in quello delle abitudini alimentari, le nuove linee guida ci avvicinano al concetto di medicina di precisione che sta guadagnando un ruolo guida. Un esempio? Nelle precedenti raccomandazioni dell’AHA sulla sedentarietà e la morbilità e mortalità cardiovascolare si leggeva che, piuttosto che raccomandare misure quantitative, è opportuno promuovere il generico consiglio “Stai meno seduto e muoviti di più11. Analogamente a quanto raccomandato dalle linee guida europee, il dosaggio “quantitativo” dell’attività fisica nelle nuove linee guida americane è ora specifico e ben dettagliato, consistendo in 150 minuti a settimana (anche in momenti separati) di attività fisica a intensità moderata o 75 minuti a settimana in attività fisica ad intensità vigorosa. Con moderata riduzione dell’attività per coloro che non sono in grado di praticare quella vigorosa.

Nell’affrontare il problema, non si può evitare di menzionare un recente studio di Jeong et al2 che ha valutato l’impatto dell’attività fisica in una popolazione molto ampia che comprendeva soggetti con e senza storia di eventi cardiovascolari. Gli studi effettuati fino a oggi si sono per lo più concentrati sui vantaggi, in termini di riduzione della mortalità, dell’attività fisica in soggetti sani. Tuttavia, non erano stati prodotti dati che distinguessero tra soggetti ancora esenti o già affetti da malattia cardiovascolare. Ciò che emerge dallo studio è che l’attività fisica offre vantaggi in termini di sopravvivenza sia nella prevenzione primaria che secondaria. Eppure, nonostante gli individui con malattia cardiovascolare preesistente presentassero meno probabilità di essere fisicamente attivi, il beneficio che derivava loro dall’attività fisica era maggiore di quello per gli individui senza malattia cardiovascolare. Inoltre, il vantaggio dell’attività fisica nella prevenzione secondaria in soggetti con patologie cardiovascolari precedenti non si limitava alle soglie di attività settimanali medio-basse (come nei soggetti sani) ma aumentava con l’aumento della soglia. Un altro studio da citare è quello di Biscaglia et al12 condotto in un ampio campione di pazienti ambulatoriali con coronaropatia stabile nei quali si valutava il rischio di morte, infarto e ictus nel corso di 5 anni in funzione della quantità di attività fisica praticata. L’attività fisica intensa, una o due volte a settimana, risultava associata a prognosi cardiovascolare migliore rispetto a quella presentata dai pazienti dediti a un livello basso di attività fisica.

Questi dati dovrebbero farci riflettere sulla dignità e sul ruolo dello stile di vita. Finora i medici hanno dedicato meno spazio di quanto sarebbe auspicabile e necessario agli interventi concreti e continuativi nel tempo per migliorare le abitudini di vita dei loro pazienti. Quando per un paziente si pone l’indicazione per l’inizio di una terapia farmacologica, per esempio anti-ipertensiva o ipolipemizzante, l’attenzione del medico sullo stile di vita sembra attenuarsi e ciò accade ancora di più dopo che il paziente abbia sofferto di un evento vascolare e sia un candidato alla prevenzione secondaria complessa con una molteplicità di farmaci.

Infine va ricordata una parte cruciale delle nuove linee guida: quella relativa a chi dovrebbe promuovere uno stile di vita più sano nella popolazione. È il medico di medicina generale? Non più (se mai fosse stato l’unico depositario di questo compito). Ora si raccomanda che si costituiscano team multidisciplinari di professionisti della salute per affrontare un argomento che diviene sempre più articolato e complesso. Si tratta di un approccio radicalmente diverso da quello attualmente in uso e la sua applicazione dovrà affrontare le barriere derivanti dalla mancanza di risorse (quella economica in primo luogo). Tuttavia, dobbiamo riconsiderare globalmente la questione della prevenzione attraverso misure fisiche e dietetiche, un approccio che non sarà mai abbastanza raccomandato.


Bibliografia

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